opportunità per favorire la crescita
2024-12-23R&D, riserve per utili non distribuiti, visione critica e negativa del fisco che si è intascato gli utili e li vuole anche in anticipo, per poi avere un atteggiamento ostile.
A Locarno in Biblioteca.
F: Salve. Pensiamo a coloro che vivranno il contro esodo.
G: la sindrome della tangenziale e del silos verticale raggiunge vertici impensabili. Che voglia di fare file di chilometri e di stare bloccati senza muoversi.
A: Mi hai detto che stavi leggendo e riflettendo. Mentre attendiamo il caffè ci dici di cosa si tratta.
F: Da parecchio tempo osservo il distacco tra le aspettative della gente del popolo, o cittadini, e le decisioni politiche che fanno riferimento a pareri e studi e proposte di vari economisti di diverse Università. Questo è un fenomeno generale, che accade in molti Paesi. Anche qui da noi. Il distacco è divenuta frattura mettendo in crisi la credibilità tra le due parti. In effetti è una frattura reciproca. Mi sono sentito dire: “Se gli economisti ed i politici la intendono così, allora io dissento.”. Ma questo vale per noi che veniamo interpellati sovente. Ma anche noi nel recente referendum sul cibo di territorio siamo stati miopi.
G: Miopi? Perché? Volevi che gli agricoltori ed allevatori locali e le industrie di caseificazione e trasformazione locali portassero i prezzi ancora più in alto? Difendere la libertà di scambio è un calmiere, in particolare per l’alimentare.
F. Se vale per l’alimentare allora deve valere per ogni settore, ed è questa la riflessione. Andiamo nella saletta che vi devo leggere qualcosa. Ma voglia fare una premessa: non è più tempo di essere assenteisti, è tempo di prendere campo.
Abbiamo letto la pubblicazione Le Prix de nos Valeurs di A. Landler e D. Theriner. Gli autori partono da una semplice constatazione: esiste una importante distanza tra l’opinione degli economisti e le loro ricette e l’opinione della gente comune, la popolazione, su un certo numero di argomenti e/o questioni chiave. Come spiegare questa distanza? Questo scarto, secondo gli autori, deriva dal fatto che gli economisti ignorano del tutto una gamma di valori che invece risultano essere importanti per la gente come: l’identità, la cultura, la solidarietà sociale e la libertà. Nella prima parte della pubblicazione vengono descritti i valori impliciti che vengono esaltati dalla maggior parte degli economisti e sulla distanza che esiste tra questi valori impliciti e quelli della maggioranza della popolazione. Nella seconda parte viene considerato il risultato di un sondaggio (inchiesta, indagine) il cui obiettivo è la valutazione delle aspirazioni degli individui integrando il costo economico delle differenti opzioni presentati ai partecipanti del sondaggio.
Consideriamo le due parti e riflettiamo anche sul nostro posizionamento e sulla responsabilità di prendere una posizione.
Gli economisti non hanno gli stessi valori della popolazione.
Nel mondo occidentale, è questa parte del mondo che viene considerata, la maggior parte degli economisti fa proprie, in quanto ci crede, delle opzioni politiche di sinistra e di centro sinistra. Negli Usa gli economisti sono 5 democratici per 1 repubblicano. In Francia gli economisti più in voga sono, da almeno 30 anni, classificati come appartenenti alla sinistra o al centro sinistra. Il mantra dei giovani economisti è “Alla fine, nel gruppo di noi ricercatori, l’idea che la razionalità è di sinistra o, al massimo, di centro sinistra è evidente implicitamente e senza alcuna restrizione, e chi vuole discuterla è da escludere e da non ascoltare perché sicuramente è in mala fede. E non deve avere diritto alla parole.”. Questa uniformità ideologica produce una distanza importante con alcune aspirazioni e/o preferenze maggioritarie nella popolazione.
Negli Usa la frattura, tra le risposte degli economisti e quelle della popolazioni su degli argomenti chiave, è enorme. Per esempio tra gli standards e/o limiti alla contaminazione ambientale o una tassa carbone, gli economisti intervistati sono favorevoli al 92% alla tassa carbone, mentre solo il 22% della popolazione americana è di questo avviso. Il 90% degli economisti è favorevole alla soppressione della deduzione fiscale degli interesse per i prestiti immobiliari, mentre solo il 36% della popolazione è favorevole. (American Economic Review, vol. 103 – 2013).
Al di là delle loro credenze politiche o economiche, gli economisti universitari si distinguono per una visione fortemente utilitaristica. Questo aspetto è reso evidente, ad esempio, nelle esperienze di laboratorio dove si osserva che gli studenti di economia cooperano meno degli altri, anche quando cooperare sarebbe di loro interesse. Il fatto di avere delle credenze differenti dal resto della popolazione dovrebbe far pensare gli economisti, ma questo avviene molto raramente. La distanza alimenta il loro complesso di superiorità. Gli economisti interpretano le preferenze della gente comune come se fossero dei cittadini naif, male informati, dei semplicioni. (Journal of Economic Perspectives, Vol. 29 – 2015).
Quanto sopra riportato risulta di attualità anche da noi. Ma mentre le decisioni dei politici vengono messe in discussione dai cittadini attraverso, da noi il referendum, in altri paesi, quando è possibile, dal voto, le decisioni degli economisti non vengono esaminate direttamente dai cittadini, in quanto sono destinate ai politici che le mettono in atto anche con piccole variazioni. Sul fatto che la gente comune venga ritenuta ignorante e non preparata è evidente, e talvolta lo diciamo anche tra di noi: non siamo degli esperti, perché paghiamo degli esperti e poi ci chiedono cosa ne pensiamo? Perché è la gente comune che vive le decisioni ogni giorno, abbiamo solo bisogno di soffermarci e pensare, il nostro DNA contiene le informazioni di milioni di anni, su ogni e qualsiasi argomento.
La non rappresentatività del corpo dei ricercatori in economia e la mancanza di diversità ideologica contribuisce al dialogo tra sordi tra la popolazione e gli “esperti” sui grandi temi della società. “Per un economista europeo, esprimere delle opinioni ostili alla costruzione dell’euro, era far prova di scarsa intelligenza e di cattivo gusto, e, cosa ancora peggiore, rischiava di essere considerato un estremista infrequentabile.”. Ricordo una discussione in una famosa birreria di Parigi ai primi del 2000, ero con Jacques e Guy, intorno al tavolaccio si parlava di euro e io espressi ciò che pensavo e penso: una moneta non può rappresentare economie di territori diversi e non omogenei, con fiscalità, protezione sociale, conduzione della cosa pubblica del tutto diversi. Venni deriso, e poi, dato che dal mio accento si capiva da dove venissi si iniziò il refrain del politico e delle ragazzine. Due anni fa, Jacques mi regalò una pubblicazione di un esperto e nella dedica ricordò che le stesse idee del libro erano sovrapponibili a quanto avevo detto, venti anni addietro, nella birreria.
E’ così che, nel pubblici dibattiti, gli economisti difendono le riforme economiche relative verso l’apertura all’esterno: libero scambio, immigrazione, costituzione europea, ordine mondiale. Queste preferenze non sono rivelatrici di una ideologia. Gli economisti basano le loro preferenze su argomentazioni ben costruite: vantaggi comparativi, interdipendenza delle nazioni, necessità della circolazione dei talenti, vantaggi del multilateralismo, ecc. Ma malgrado le loro elaborate basi, queste idee non sono condivise dall’opinione generale e questo dovrebbe, quanto meno, portare gli economisti a farsi delle domande.
Sull’immigrazione, il consenso scientifico, ciò che emerge dai comitati di lettura delle riviste specializzate, rivendica gli effetti positivi dell’immigrazione sul paese di accoglienza. Invece la popolazione desidera in stragrande maggioranza che i flussi migratori siano fortemente ridotti. Gli economisti imputano questa preferenza della popolazione all’ignoranza e raccomandano di fare pedagogia. Ma queste constatazioni non convincono gli autori. In effetti “quando si tocca l’argomento dell’immigrazione i nostri concittadini non pensano alla disoccupazione o alla crescita, ma all’identità, alla sicurezza, al peso ed al costo dei servizi sociali, che sono punti non considerati nell’analisi economica classica.”.
Ad esempio in Francia se la maggioranza della popolazione ritiene che non si debba accogliere un supplemento di immigrati, solo una minoranza ritiene che la loro partenza risolverebbe il problema della disoccupazione. Non aderiscono all’idea che l’immigrazione sia economicamente dannosa invece ritengono in maggioranza che vi siano pesanti effetti sulla criminalità e sulla violenza, sulle tensioni esercitate sul sistema sociale e le minacce identitarie. https://www.ifop.com/publications/barometre-de-la-fraternite-edition-2021.
Altro esempio di malinteso tra gli economisti e la popolazione è la Brexit. Gli Autori ricordano, come premessa, l’elemento talvolta ignorato da giornalisti in buona fede che “pochi elementi tratti dalla teoria economica sostengono in maniera univoca la costruzione europea”. Molti economisti hanno previsto che lasciando l’UE, l’UK perderebbe, nel breve periodo, qualche punto del proprio PIL (un anno di crescita), in quanto le tariffe doganali metterebbero degli ostacoli (sabbia) negli scambi internazionali. Gli Autori giudicano che un anno di crescita non è certamente poca cosa, ma non è così stravagante. Ricordano soprattutto che le conseguenze economiche della Brexit rappresentano una sfida minore nel dibattito dei cittadini inglesi: nei sondaggi realizzati sull’esito del referendum, le due principali ragioni per il “No” erano legate alla sovranità e all’immigrazione, non agli effetti economici dell’uscita dalla UE.
Perché gli economisti ignorano, per quanto riguarda l’immigrazione, le sfide e gli aspetti extra economici? Relativamente all’immigrazione dovremmo verificare cosa e quanto condividiamo. F: Io penso che la libera circolazione delle persone non abbia niente a che vedere con l’immigrazione. L’immigrazione è un fenomeno legato all’uomo, sin da quando si è riunito, prima in un nucleo familiare, poi in un clan o tribù, poi in popolo e poi in etnia. L’immigrazione è benvenuta se viene svolta nella trasparenza e nella chiarezza. Accogliere quelli che scappano da situazioni di guerra è un dovere. Accogliere e sostenere, ed integrare. Ma accogliere senza conoscere , senza sostenere, senza voler integrare significa operare in una zona grigia o grigioscura. Dentro vi sguazzano mille angherie e soprusi e mafie (anche se non so esattamente cosa significhi questa parola, se non l’intimidazione, l’ottenere con la paura ed il terrore, anche se questo riguarda anche la burocrazia e la magistratura), coloro che ammassano i futuri immigrati in campi di raccolta, con i soldi in bocca, le troppe unità dette onlus, che hanno come scopo, come minimo, quello di non far cambiare la destinazione a degli sbandati, quelli che li accolgono e li comprimono in lager, a 30 euro per giorno. Questo fa paura. Questo genera ribellione, violenza. Che prima o poi scoppia senza poterla gestire. Sempre secondo gli Autori questa deliberata ignoranza risponde, sempre per gli economisti, a due punti fissi:
1 – Un altruismo “catozombie” (espressione di Emmanuel Todd), cioè la convinzione che la giustizia sociale deve riguardare l’universale piuttosto che l’inter comunitario.
2 – Il postulato che la diversità è feconda e, al contrario, che il ripiegamento identitario sia un regresso.
Altro tema in cui economisti e gente comune è in disaccordo sono le rendite. Per gli economisti è buona cosa con argomenti ben preparati e fondati, mentre per gli Autori l’idea è che certe rendite consolidano la società (Durkheim) e che la loro eradicazione potrebbe devitalizzare il tessuto sociale. Così i francesi, come gli americani, sono ostili massivamente alla tassazione dell’eredità, che è la rendita per eccellenza. Perché questa ostilità? Una prima spiegazione è relativa al fatto che la gente comune non ragiona a budget costanti e che dubita che lo Stato usi la maggior entrata per diminuire le imposte. Ma esiste un’altra spiegazione più profonda: i cittadini considerano l’eredità trasmessa come un bene di consumo legittimo delle famiglie e che non vi sia alcuna ragione per tassarlo, come qualsiasi altro bene di consumo. Gli Autori non esplorano delle piste ancora più antropologiche: viene osservato così semplicemente che la maggior parte dei parenti previlegi l’avvenire dei propri figli, talvolta (come è il caso dell’eredità) a detrimento dei figli degli altri. Gli Autori osservano tuttavia che la scienza economica non condanna tutte le forme di rendita. Il “potere di mercato”, vale a dire la capacità di vendere un bene più caro del suo costo di produzione, può essere un catalizzatore per la crescita: il brevetto costituisce, per esempio, un monopolio temporaneo che permette gli investimenti di un diritto di sfruttamento esclusivo della propria idea, e, così facendo, rende l’innovazione “redditizia”. In maniera analoga si può considerare il prezzo elevato di un immobile in un quartiere attrattivo non unicamente come una rendita indotta, ma come una remunerazione dell’investimento collettivo dei suoi abitanti in una forma di capitale sociale associato al quartiere. Ostacolare con tasse queste rendite potrebbe nuocere all’investimento sociale (Rajan: The Third Pillar – 2019).
Ciò che viene lasciato in eredità ha già pagato quanto dovuto alla fiscalità. Io non sono d’accordo che il fisco metta la mano su quanto accantonato dai genitori o dalla generazione prima. Ma è un parere personale e so che alcuni di voi la pensano diversamente. D: Sull’eredità dovremmo anche soffermarci sul trasferimento del sapere e del know-how a figli, parenti, a persone conosciute, di cui si può prevedere il senso della lealtà. Anche questo aspetto allora potrà essere messo in discussione? A: Mi ricordo cosa abbiamo imparato da Vasari: le botteghe e l’evoluzione della pittura, scultura e architettura nei suoi molteplici aspetti, e quanto sia importante la figura del maestro e dell’allievo che diventa poi professionista.
Sul mercato del lavoro gli economisti possono considerare delle situazioni protette come delle rendite, quando invece queste protezioni permettono al contrario il benessere di tutti. Durkheim spiegava già (1870) che la corporazione offre all’individuo un quadro protettivo, l’inserzione in una comunità più grande che lui stesso, ma a dimensione umana. In maniera generale, la massima concorrenza (gabbia dell’assenza di rendite) mette gli individui in modalità “sopravvivenza” e porta l’individuo a disconnettersi delle conseguenze dei suoi atti, diluendo il senso di responsabilità. In un mercato concorrenziale, l’individuo non vede il prezzo delle cose come dipendente da lui, ma come il risultato della macchina del mercato. E la sua riflessione è “se non approfitto di questa occasione concorrenziale, un altro lo farà”. (Science – Vol. 340 – 2013).
In un mondo in cui il rischio è imperfettamente preso in carico dalla collettività, le rendite offrono una assicurazione contro i colpi della sorte. Se tutte le rendite non sono tutte disponibili per essere prese, vi sarebbe un equilibrio da cercare. E ciò che vale per la concorrenza tra lavoratori di uno stesso paese vale anche per ciò che concerne la concorrenza internazionale.
Gli economisti credono in larga misura nella virtù del libero scambio. Gli Autori ricordano che la teoria dei vantaggi comparativi era, per Paul Samuelson, una delle teorie economiche nello stesso tempo vera e non triviale. Si ricorda infatti che il ragionamento portato da Ricardo permette di dimostrare che un paese senza alcun vantaggio di produttività in alcun settore ha, tuttavia, interesse allo scambio specializzandosi nel settore in cui il suo svantaggio è minore.
Ecco la ragione del perché gli americani ed i francesi comuni, non sono d’accordo, e per un grande margine, all’entusiasmo degli economisti per la libera circolazione delle merci e delle persone. E nei sondaggi, quando le persone interpellate vengono informate del consenso degli economisti su questi problemi, la loro opinione non cambia. (The Journal of Politics – Vol. 78 – 2016). Gli Autori osservano anche che una nuova generazione di ricercatori rivaluta la questione dei guadagni del libero scambio con dei dati più allargati e che le conclusioni di questi studi temperino le asserzioni sulla supposta virtù del libero scambio. E’ così che l’entrata della Cina nel OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) ha contribuito alla caduta di un quarto dei posti di lavoro nel settore industriale degli Usa. (American Economic Review – Vol. 103 – 2013).
Qui vi riporto sull’alimentare. Con l’alimento, in particolare con il vegetale veniamo in contatto con il micromondo, con uova di insetti, pòllini, invisibili corpuscoli che hanno superato barriere disinfestanti di oltre 200 sostanze da noi proibite da anni, e quando rivivono, perché ancorché invisibili sono in stato latente, noi tentiamo di difenderci con i disinfestanti che sono appena in grado di eliminare gli insetti nostrani. Come possiamo pensare che questi nuovi arrivati non occupino il territorio? Che possiamo vedere noi? Allergie, infezioni, malattie come il morbillo e la poliomielite debellate da tempo. Ma non vediamo l’occupazione del territorio e poi parliamo di biodiversità. Il referendum sulla territorialità dell’alimentazione era importante. Al limite si poteva mettere un limite alla lievitazione dei prezzi. Vediamo cosa succede oggi con il gas ed i combustibili. Avevamo paura della nostra filiera agroalimentare, non ci fidavamo, e adesso che siamo in mani non nostre? E pensiamo a quei paesi che non possono decidere direttamente perché si sono creati una costruzione superburocratica che può solo stampare moneta e non costruire non avendo una visione. In Occidente mettiamo degli ostacoli burocratici e degli obblighi che alla fine non permettono la prosecuzione dell’attività, in quanto la concorrenza viene da territori che NON applicano la visione burocratica nostrana, magari in nome del clima o della transizione ecologica. Se pensiamo globale ci rendiamo conto che se in alcuni territori non si osservano le stesse regole, il clima globale non ne ha un vantaggio. In Cina le pile per le macchine elettriche vengono prodotte in fabbriche che vanno a carbone. Dov’è la visione globale? Dov’è il beneficio? Si distrugge la cultura ed il know-how di un territorio per ragioni ecologiche e si permette e si favorisce la produzione non ecologica all’entrata. Così si va a sbattere. Ma riprendo perché altrimenti non la finiamo più.
Ma anche se il guadagno nello scambio restava positivo globalmente, gli Autori, rimproverano ai loro colleghi economisti di non considerare gli effetti perversi della globalizzazione, sulla distruzione di posti di lavoro per la concorrenza internazionale. Secondo Paul Krugman la soluzione è semplice: è sufficiente distribuire meglio i guadagni del libero scambio. (Krugman: Globalisation what did we mess? – 2019). Il primo problema è che questi guadagni potrebbero non essere così importanti come previsto. Gli economisti C. Arkolakis, A. Costinot e A. Rodriguez-Clare valutano i guadagni, relativi alla specializzazione, pesino l’1% del PIB Usa ed il 4% del PIB in UE (American Economic Review – 2012). Perché dei guadagni così bassi? Due sono le spiegazioni: 1) La maggior parte dei paesi è relativamente chiusa e l’essenziale del consumo è legato alla produzione locale, in particolare per i servizi; 2) i dati dimostrano che le importazioni sono molto sensibili ai tassi di scambio, permettendo ai paesi di svantaggiare i prodotti esteri. Gli Autori aggiungono “queste spiegazioni non sono le sole, se ne aggiungono molte altre. Un po’ destabilizzati dai risultati, gli economisti contemporanei fanno fatica ancora a credere e a non divulgare troppo l’informazione.”. Il secondo problema è che non è del tutto triviale prendere da coloro che guadagnano (i vincenti) per sovvenzionare i perdenti. Prima di tutto non è per niente agevole identificare i vincenti ed i perdenti, e il fatto di tassare e sovvenzionare presenta un conto: la tassazione scoraggia il lavoro e l’investimento, e la sovvenzione per i lavoratori può fortemente diminuire la loro volontà di formazione e di cambiare settore. Soprattutto ricevere un sussidio non sostituisce mai il fatto di avere un lavoro. Lavorare porta non solo dei soldi ma anche amor proprio, status sociale, senso di essere comunque utile alla società. Sulla base di richieste qualitative, è stato possibile dimostrare che perdere il proprio impiego determina uno choc negativo relativo al benessere due volte maggiore che nel caso di una separazione o una morte (International Journal of Epidemiology – 2002). Una esperienza svolta in un campo di rifugiati conferma che i soldi non sono tutto: i partecipanti pagati per non fare niente dichiaravano lo stesso livello di benessere che il gruppo controllo (ne soldi, ne lavoro), i partecipanti pagati per lavorare, invece, risultavano più felici. (NBER-2021).
Concludono gli Autori “dato che non sappiamo distribuire i frutti della globalizzazione, può essere più semplice limitarla…I guadagni economici del libero scambio non sono sufficientemente importanti per giustificare questa negligenza verso le considerazioni extra economiche.”. Gli Autori sono molto critici in merito alla pretesa degli economisti di fare il benessere della gente anche se queste non sono d’accordo. Condannano in particolare e con virulenza la volontà di certi economisti di voler “rieducare” gli individui con nudges (spinte, forzature, obbligazioni, gomitate), questi dispositivi creati per aiutarci a non cedere agli impulsi del momento e ad agire secondo i veri interesse a lungo termine. Anche se questa moda di nudges è stata un po’ ridimensionata.
Per quanto riguarda il risparmio, un nudge può avere come obiettivo invece di fare l’opzione più interessante a lungo termine, di fare la più esigente a breve termine. I nudges provocano molti problemi. In primo luogo un problema di efficacia: i loro effetti sembrano interrompersi a lungo termine. Per esempio, rivisitando 241 studi differenti Stefani della Vigna e Elizabeth Linos, riscontrano degli effetti nettamente più deboli confrontati a quelli inizialmente pubblicati. (NBER. Working Paper – n. 97 – 2020).
Secondo problema: coloro che vogliono guidarci nelle nostre scelte rischiano di proiettare i loro propri desideri o il loro proprio ideale di funzionamento della società (distopia?). Secondo gli Autori, i promotori di nudge dovrebbero, come minimo, sistematicamente rendere pubblico e visibile le tecniche e gli obiettivi previsti dei loro interventi: come è possibile accusare la gente di complottismo e di paranoia se la dottrina dello stato è quella di usare tecniche di manipolazione per favorire il loro supposto benessere?
Approfondire la conoscenza delle aspirazioni e dare loro risposta
Gli Autori propongono, alfine che gli economisti rispondano meglio alle aspirazioni della popolazione, di analizzare e definire ciò che gli economisti chiamano “preferenze economico morali”. Queste preferenze descrivono le scelte operate quando siamo costretti a fare dei compromessi tra il nostro attaccamento a certi valori e il guadagno o il costo economico che le scelte conformi a questi valori implicano. Gli Autori sono coscienti della esistenza di una frattura tra le risposte alle inchieste e ciò che la popolazione metterebbe in pratica di fronte alle difficoltà finanziarie reali. Molteplici ragioni possono creare questa frattura: volontà di apparire virtuosi verso gli altri e verso se stessi, di assecondare colui che pone la domanda, ed altro. Per gli Autori diversi studi mostrano una forte correlazione tra l’ipotetico comportamento (risposta a una domanda dell’inchiesta) e il comportamento reale quando il denaro è veramente in gioco. Il metodo economico ha sempre avuto l’ambizione di essere agnostico relativamente alle preferenze e alla omogeneità degli attori. Di solito gli economisti utilizzano il metodo delle “preferenze rivelate” per misurare le preferenze dei consumatori. Il metodo consiste nell’osservare gli atti dei consumatori e da questi dedurre le loro preferenze. Secondo gli economisti è meglio fare affidamento su quanto fa la popolazione piuttosto a ciò che dice che vorrebbe fare. La letteratura economica è scettica sulla possibilità di domandare direttamente alla popolazione il valore monetario di un bene pubblico o di una riforma, come nella domanda “Quanto siete disposti a pagare per decontaminare questo lago?”, perché le risposte, in questo caso, sono poco coerenti. (Journal of Economics – 1994). Tuttavia il metodo delle preferenze rivelate non è sempre adatto. Per esempio, osservano gli Autori, che non è perché la gente frequenta poco i musei che si possa concludere che lo Stato debba tagliare i finanziamenti per ridurre le imposte: le scelte effettive dei consumatori possono essere influenzate dai loro mezzi finanziari o per le piccole debolezze umane che vengono influenzate dalla facilità. Se nella vita vera dominano gli impulsi, le abitudini oppure la spinta del marketing, ciò non significa che le aspirazioni dichiarate devono essere ignorate. Al contrario, sulle domande di valori e morale, sono le aspirazioni che chiariscono il fondo del pensiero delle persone. Così gli Autori, per sondare le aspirazioni e non cadere nelle incoerenze delle risposte a delle domande come “quanto siete disposti a pagare?” propongono di misurare l’intensità di adesione delle persone interrogate a dei dispositivi la cui natura ed il prezzo variano (differenti partecipanti si trovano di fronte a differenti prezzi, e questo in maniera aleatoria).
Si tratta di porre le domande del tipo: “voi potete scegliere la politica X, ma vi costerà Y”. L’interesse di questo approccio è che è possibile variare X e Y per le persone interrogate e ottenere la sensibilità delle preferenze morali correlate al costo economico delle scelte che sono implicate. A. Laudier e D. Theriner hanno messo a punto una inchiesta in 12 domande, per le quali viene variato sistematicamente il costo economico implicato per una scelta morale data e dove si può osservare in quale misura la variazione di questo costo modifica l’adesione delle persone interrogate su questa specifica scelta. In particolare se la propensione degli individui a sacrificare il loro interesse economico dipenda o meno dal costo, si può dire che costoro agiscono in maniera deontologica: hanno dei principi intangibili ai quali tengono, qualunque sia il costo. Al contrario, se l’adesione diminuisce qualora il costo aumenti, si può ritenere che vi sia una forma di compromesso tra l’economia e la morale.
Quattro sono i temi oggetto dell’indagine:
L’inchiesta, indagine, è stata condotta in 3 paesi (Germania, Usa, Francia), su 2000 persone in ciascun paese. Si conoscono le caratteristiche socio demografiche delle persone interrogate (età, sesso, fascia di reddito, simpatie politiche e altro) così che le loro risposte alle quattro domande preliminari permettono di conoscere l’adesione ai valori di empatia, di equità, di legalità e di autorità, e posizionarli su un asse collettivista/individualista e sull’altra asse sinistra/destra. La prima asse viene definita dal livello medio di adesione a quattro valori: compassione, legalità, autorità, uguaglianza; il secondo asse a due valori di “sinistra” (empatia, equità) meno la somma di due valori di “destra” (legalità, autorità) misurando l’importanza relativa corrispondente a ciascuna copia di valori.
I partecipanti sono separati in maniera aleatoria in diversi gruppi a cui si mostrano dei costi differenti (uno stesso partecipante non reagisce alla stessa domanda con differenti livelli di costo).
Per esempio, una delle domande è così formulata: “Per sostenere un costruttore locale le autorità hanno imposto alla società dei trasporti della vostra città di acquistare solo dei mezzi di trasporto fabbricati da una impresa [due ipotesi: nazionale e europea]. Questo farà aumentare il prezzo dei trasporti di [3 ipotesi: 5%, 10%, 50%], ma questa decisione permette di salvare 1000 posti di lavoro nella regione. In quale misura siete d’accordo con questa iniziativa? Esprimete la vostra preferenza con un numero da 1 a 10 (1: non d’accordo, 10: completamente d’accordo).”.
Gli insegnamenti ottenuti da questa inchiesta:
Quest’opera ha il merito di un aspetto che gli economisti sovente schivano: perché la gente ordinaria non aderisce a certe nostre raccomandazioni? Si ha un esempio recente in Francia con la proposta di riforma in merito all’eredità, difesa da numerosi economisti, ma rifiutata dalla maggioranza dei francesi. La risposta tradizionale degli economisti, che evoca la cattiva informazione e la insufficiente pedagogia, appare del tutto insufficiente. Per tutte le persone intervenute, in una maniera o nell’altra, nella elaborazione delle politiche pubbliche, la questione di ciò che vogliono veramente coloro ai quali ci rivolgiamo non è sempre chiara, senza dubbio perché la risposta sembra talvolta evidente, e questo non è sempre il caso.
L’opera ha inoltre l’interesse di sintetizzare dei risultati di ricerca poco trattati nel dibattito pubblico, come quelli relativi alla debolezza dei guadagni negli scambi.
Riassumendo: non si deve mentire alle persone sul guadagno o sul costo economico reale di questa o quell’altra opzione (tentazione comune per chi cerca di convincere gli elettori), ne pretendere di sapere, al posto loro, ciò che è buono per loro, come fanno sovente certi economisti.
F: questo è il lavoro e la riflessione di questo periodo.
G: Condivido molto di questo lavoro, inviami il testo per email. Mi sembra ottimo l’esempio del sondaggio con la classica matrice e le variabili.
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