Fitoderivati una opinione

Fitoderivati una opinione

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Belle giornate di settembre. A casa sono iniziati dei lavori in giardino, quindi vi ho invitato al Bar del Teatro del Gatto. Vi voglio leggere l’opinione di Mauro Veneroni relativa ai fitoderivati. E’ un argomento utile anche per approfondire la tematica legata al prossimo referendum relativo anche, oltre che all’AVS, agli allevamenti intensivi.

Opinione Personale (non richiesta) sull’utilizzo di Fitoderivati nella nutrizione e nella

terapia zootecnica (animali da reddito).

La mia tesi iniziale:

Considero l’arrivo di fitoderivati (estratti di piante, olii essenziali, erboristeria…) come l’onda lunga della crociata contro l’uso degli antibiotici, causa dell’aumento della resistenza agli stessi, in umana.

Tale crociata, partita negli anni ’90, si è, dapprima, focalizzata territorialmente in Europa e specificatamente sugli antibiotici a basso dosaggio come fattori di crescita (auxinici). Il razionale di questa prima crociata si basava sulla tesi che la somministrazione a basso dosaggio di antibiotici, per un lungo periodo della vita dell’animale, favoriva, sì, le performance zootecniche (il FCR – Indice di Conversione del Mangime, grazie ad una riduzione di problematiche enteriche e/o ruminali), ma anche la selezione e la crescita di ceppi di batteri, resistenti a quegli stessi antibiotici. Visto che, in molti casi, gli stessi antibiotici (o stesse “famiglie” di sostanze) venivano poi utilizzati anche in terapia umana, ecco che accresceva il rischio della creazione di quelli che poi saranno chiamati SuperBugs (cioè microorganismi resistenti a molti antibiotici).

A nulla valsero gli sforzi tesi a dimostrare che questa tesi, pur avendo fondamenta scientifiche solide, aveva scarsi riscontri pratici. Le sostanze maggiormente usate come auxinici (Bacitracina, Flavomicina, Virginiomicina, Carbadox, Olaquindox, Nitrovin, Lincomicina,..) non erano presenti nei prontuari umani. Quindi non si capisce il nesso.

Ma si usò come evidenza il fatto che, dagli anni ’60 in poi (anni di inizio dell’introduzione dell’uso degli auxinici), erano man mano cresciuti, nel mondo, i fenomeni e l’allargamento di farmaco resistenza, in esseri umani. E si prese ad esempio la Vancomicina, antibiotico salva-vita, somministrata solo a livello ospedaliero, che vedeva, nel corso dei decenni, la sua efficacia diminuire enormemente. Si attribuì all’uso del Nitrovin lo sviluppo di una resistenza crociata alla Vancomicina. A nulla valse la dimostrazione che anche negli USA, dove il Nitrovin non era mai stato utilizzato né registrato, la Vancomicina risultava meno efficace negli anni!

La perdita di interesse da parte delle società inventrici delle sostanze (che, nel tempo, erano uscite dalla copertura brevettuale), la perdita di interesse nel settore da parte dei maggiori gruppi farmaceutici multinazionali umani (che prima utilizzavano il settore veterinario come mercato di progetti non andati a buon fine nell’umana), l’inizio del peso dell’opinione pubblica nelle decisioni europee, … ebbero come risultato che, a cavallo degli anni 2000, l’Europa bandisse l’uso degli auxinici nella alimentazione zootecnica. Fu una decisione solamente europea; il resto del mondo continuò come prima.

Tale decisione implicò una vera e propria rivoluzione nell’alimentazione animale, che coinvolse la genetica, la struttura stessa delle stalle e degli allevamenti, il cambio dei parametri della nutrizione, il management aziendale, l’introduzione di nuove sostanze (gli acidi organici a catena media e corta, l’ossido di zinco, ecc.). Apparvero nuove problematiche e nuove “malattie”: una per tutti, la Salmonellosi, con risvolti diretti sull’uomo.

In Europa, l’abolizione degli auxinici, causò inizialmente un aumento dell’uso di antibiotici nella

terapia (profilassi, metafilassi e terapia).

Nel corso degli anni, il problema dell’accresciuta e progressiva resistenza di alcuni batteri a molti antibiotici è diventato planetario. Il target è rimasto l’allevamento intensivo.

Vale la pena, qui, di notare come alla fine degli anni ’90 l’Europa visse il dramma (o, meglio, FORTUNATAMENTE, lo psico-dramma) della “Mucca Pazza”. Non entro qui nel merito della questione (mi limito a dire che, a fronte di apocalissi previste per gli anni a venire, i morti diretti di morbo di Jacob- Kreuzfeld furono 298), ma mi pare importante chiarire come, da quel momento, le decisioni su questioni “scientifiche” vennero prese da consessi politici, con tutto ciò che ne consegue (il politico ha una miopia congenita, da voto)(l’evoluzione, ancora peggiore se possibile, è l’attuale passaggio decisionale dal mondo scientifico a quello social…).

Quando i residui di antibiotici nelle carni non potevano essere incolpati (grazie alla fissazione di tempi di sospensione tra l’ultima somministrazione di farmaco e la macellazione, così da garantire l’assenza di tali residui; tempi di sospensione che hanno dei fattori di sicurezza di 100, allorché vengono calcolati…), allora si zoommò sui residui di tali sostanze nelle deiezioni animali (deiezioni che poi venivano almeno in parte utilizzate come concimi agricoli) arrivando ad ipotizzare contenuti di farmaci che, dalla terra passavano nelle derrate ortofrutticole fresche o nei cereali. Questa ipotesi, mai concretamente poi verificata, fu alla base della decisione (sempre solo europea, nel mondo) dell’obbligo di decantazione delle deiezioni suine, in allevamento, per almeno 120 giorni prima del loro spargimento su campi agricoli; e la relazione tra numero di animali allevati e superfici agricole minime da utilizzare per lo smaltimento. Un’altra rivoluzione del settore, per investimenti necessari e locazione degli allevamenti, che sconvolse la suinicoltura europea.

Il mondo medico mondiale, tra il 2005 ed il 2010 ha iniziato a far sentire la propria voce sul pericolo (non più rischio) della mancanza di armi antibiotiche, a fronte dello sviluppo dei cosiddetti SuperBugs, batteri resistenti a quasi tutti gli antibiotici. In contemporanea ci si rese conto che la ricerca mondiale aveva già da tempo tralasciato di lavorare sullo sviluppo di molecole antibiotiche nuove, per mancanza di interesse.

Se si analizzano le caratteristiche di SuperBugs, si noterà, tra le altre cose, che, nella stragrande maggioranza dei casi, l’origine di tali batteri viene identificate come “nosocomiale” (cioè, si sviluppano negli ospedali, che agiscono come “incubatori” biologici di nuovi ceppi selezionati).

La pressione mondiale, che dal settore medico si sposta direttamente sui media, fa sì che anche il paese meno incline ai cambiamenti zootecnici (gli USA), nel 2015 annunci ufficialmente al mondo che, a partire dal 2019 ed in modo progressivo, avrebbe:

–          Proibito l’uso di antibiotici a basso dosaggio (auxinici) per tutta la vita degli animali,

come fattori di crescita (Benvenuto!!, diremmo noi)

–          Richiesto la prescrizione veterinaria per l’uso di farmaci in terapia (in Europa tale

prescrizione è in uso dagli anni ’80).

Durante il tam-tam mediatico che ne segue, si perde “a basso dosaggio” e, nel mondo, scoppia la frenesia dell’antibiotic-free. Addirittura i grandi brand globali e la GDO cavalcano in primissima persona l’onda e scavalcano le stesse autorità regolatorie. In prima battuta viene applicato al mondo avicolo, carne ed uova. A seconda dei paesi, nascono le dizioni “biologico” (parola che, da neutra, assume un connotato positivo, come se ciò che non è “biologico” è cattivo, fa male, è “sintetico”. Quale è il contrario di “biologico”?), “organico”, “naturale”, ecc.

L’adozione di un capitolato “bio” stretto, impone che l’animale, in caso di malattia, non

possa essere curato (che va contro all’etica del medico veterinario).

E’ qui che entrano in gioco i prodotti fitoterapici, chiamati a sostituire il farmaco allopatico, nel mondo “bio”.

Non mi permetto certo di arrogarmi il diritto di sapere se un prodotto fito “fa qualcosa” oppure no: entrerei in un ginepraio, dove il mondo è diviso in due, tra chi dice che, ancora oggi nel terzo millennio, la maggior parte della popolazione terrestre si cura con le erbe (Africa, Sudamerica, Asia ed una frazione dell’Europa) e chi dice che, proprio perché si curano con le erbe hanno una mortalità almeno 100% più alta! Resta, COMUNQUE il fatto che, in tutto il mondo, di fronte ad una infezione conclamata ci si cura con una sostanza chimica, se si può.

Valuto qui solo gli ostacoli all’uso proprio, sostenuto scientificamente e “legale”, dei

prodotti fito.

All’interno della EU, alle sostanze “fito” non viene riconosciuta alcuna proprietà (preventiva, di ausilio, di cura, di sostegno…): sono degli AROMI. E come tali sono classificati e devono essere dichiarati in etichetta.

In effetti, nulla vieta che una società decida di registrare una sostanza fito, per vantarne delle proprietà. Lo scoglio, per me insormontabile, è che la prima cosa che viene richiesta ad una sostanza da utilizzare in zootecnica (da reddito) è l’identità certa. Ciò vuol dire la possibilità di analizzare adeguatamente tale sostanza, sia quando è pura sia quando è diluita.

Prendo, volontariamente, l’esempio della cannella. Dire che uso l”estratto di cannella” o l’”olio di cannella”, in zootecnica, dal punto di vista regolatorio, non vuole dire niente. Esistono 700 specie di cannelle diverse.

La radice di cannella contiene principalmente canfora. La corteccia di cannella principalmente eugenolo. Le foglie di cannella principalmente aldeide cinnamica. La radice, corteccia o foglia della cannella di Milano sarà uguale a quelle di Palermo, o Mexico City, o Bangkok? Tutte e tre contengono almeno altre 4-500 sostanze non identificabili. Nel mondo zootecnico (da reddito) siamo normalmente a caccia di inquinanti contenuti in ragione di ppm (parti per milione); qualche volta anche ppb (parti per miliardo: cioè 1 mg in 1 ton!!!!).

Se anche fossi capace, con uno spettrofotometro di massa, di identificare la sostanza principale, sarebbe poi impossibile quantificare tale sostanza, una volta diluita in un mangime: come faccio a determinare quanta ne ho messa?

Senza tale possibilità, come condurre dei test ripetibili sulla sua efficacia? Sulla tollerabilità?

Sulla sicurezza? Sui residui nelle carni e nelle derrate alimentari?

Tanto è vero quello che ho detto sopra, che l’aldeide cinnamica (riconosciuta come efficace antibatterico, sia in vitro sia in vivo) viene SINTETIZZATA CHIMICAMENTE, come un qualsiasi antibiotico, ed utilizzata già da 20 anni (ma senza poterne vantare l’efficacia in etichetta……).

Se si volesse vantare una qualsiasi efficacia anti-batterica, si cadrebbe addirittura da additivo nel farmaco, con fissazione degli MRL, farmacodinamica e farmacocinetica, studi di deplezione, ecc. ecc. Barriere invalicabili, anche solo per i costi.

Ma, a questo punto, perché l’aldeide cinnamica (che consiste in un anello di benzene legato ad una aldeide insatura, ed è un derivato dell’acroleina) andrebbe bene, ed un antibiotico tradizionale no?

Piccola polemica. Spesso al “bio” è associato il “free range” (specialmente in campo avicolo, cioè gli animali vengono allevati con ampi spazi dehors). Il passare tempo all’aperto, significa ovviamente essere soggetti, oltre che di predatori, anche all’attacco di parassiti, esterni ed interni (questi ultimi, i classici vermi, le cui uova sono naturalmente presenti nella terra). Allora gli animali devono essere opportunamente e frequentemente trattati con vermifughi ed anti-elmintici, per ridurre le conseguenze negative. L’antibiotico è “cattivo”, mentre il vermifugo è “buono”?

Ma torniamo a noi…

Il marketing zootecnico/veterinario si è impadronito dei prodotti fito, sollevando una cortina fumogena attorno a loro, grazie all’utilizzo (SOLO SU MATERIALE SEPARATO DALL’ETICHETTA!!!!!!!!) di giri di parole, tipo:

Aiuta a riparare i danni causati da…

E’ un coadiuvante nel limitare un malessere….

Può (!!!!) ridurre i problemi derivanti da….

Specialmente in ambito “Immuno System” si assiste a tutto ed a di più, dal momento che ben difficilmente è misurabile un effetto “positivo” sul sistema immunitario di un animale.

O in ambito “stress”.

Oppure citando prove sperimentali in laboratorio, con effetti anti-batterici o anti-parassiti; faccio presente che in laboratorio, una banale soluzione acquosa salina (SALE DA CUCINA) può risultare avere effetti antibatterici, ripetibili e verificabili.

Secondo la mia opinione, la curva di utilizzo di prodotti fito è già nella curva di caduta, almeno negli animali da reddito.

About the author:

ho operato da sempre nel settore dell'alimentazione degli animali da reddito in Europa e nel mondo. Benessere animale, sicurezza dei manipolatori, degli utilizzatori e dei consumatori sono le linee direttrici. Un aspetto importante è lo sviluppo durevole e i ruoli per i giovani nonché l'accessibilità per i meno abbienti a derrate alimentari sicure

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