opportunità per favorire la crescita
2024-12-23R&D, riserve per utili non distribuiti, visione critica e negativa del fisco che si è intascato gli utili e li vuole anche in anticipo, per poi avere un atteggiamento ostile.
Maurice Allais
Destinato[1] inizialmente a favorire lo sviluppo dell’economia mondiale evitando nuovamente gli eccessi protezionisti che aveva riguardato la Grande Depressione degli anni 30, il GATT[2] si è progressivamente orientato, nel corso di accordi successivi, verso un libero scambismo mondiale, un mondo senza frontiere. L’orientamento generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC)[3], recentemente creata, si posiziona nel prolungamento della strategia del GATT. Questa evoluzione ha provocato dovunque delle difficoltà molto serie che ci portano a riflettere ed a interrogarci.
Maurice Allais
LA SITUAZIONE ECONOMICA E POLITICA
Che si barcamena, le une con le altre, in un equilibrio fragile.
Il loro presente equilibrio è eminentemente precario.
Non è possibile sotto stimare i pericoli della situazione attuale e le sue implicazioni potenziali in relazione alla crisi del libero scambismo.
E’ necessario essere pienamente coscienti che una liberalizzazione sconsiderata degli scambi può suscitare dovunque delle difficoltà maggiori e delle violente opposizioni. E’ quindi possibile compromettere la necessaria costruzione di un ordine mondiale coerente ed efficace, condizione necessaria per il nostro futuro.
FONDAMENTI: LA TEORIA DEI COSTI COMPARATI.
Seguendo la teoria dei costi comparati, ed in rapporto ad una situazione iniziale di autarchia, l’equilibrio del libero scambio che si stabilisce si caratterizza per una specializzazione di ciascun paese in una attività dove è relativamente più capace.
In generale questa specializzazione ha come effetto di aumentare i livelli di vita media in ciascun paese e può risultare più vantaggiosa per ogni paese. In ogni paese, e nella misura stessa dove, a seguito della liberalizzazione degli scambi, una data industria vede la propria attività declinare un’altra vede la propria attività accrescersi, altrimenti detto la specializzazione di ogni paese comporta necessariamente l’abbandono parziale o totale di certe attività e lo sviluppo parallelo di altre attività.
I corsi degli scambi hanno l’effetto di far scivolare le scale dei prezzi nazionali, gli uni in rapporto con gli altri, e si stabiliscono a dei livelli che permettono di realizzare l’equilibrio di ciascuna bilancia commerciale e l’uguaglianza per ogni paese, per il corso degli scambi, di prezzi interiori e di prezzi esteriori di produzione che sono oggetto di scambi internazionali.
Il risultato è che in media ed in equilibrio, i corsi degli scambi non fanno che riflettere le differenze di produttività. Per due paesi dati, il rapporto delle remunerazioni salariali globali di corsi di scambio è uguale al rapporto delle produttività medie, e il corso dello scambio ugualizza i livelli medi dei prezzi nazionali. Infatti, se i paesi meno sviluppati sono avvantaggiati per il loro salario più basso, sono handicappati per le loro produttività meno elevate, e in media i tassi di cambio vengono a compensare, quanto ai prezzi, le differenze medie di produttività e dei salari reali.
Ma i tassi di scambio non realizzano che una composizione media dei livelli di prezzo, e in ogni paese le industrie con una produttività relativa più elevata o con salari reali relativamente più bassi sono relativamente avvantaggiati.
E’ il punto, se vi è equilibrio, dell’effetto essenziale e inevitabile di qualsiasi libero scambio.
E’ questo il punto fondamentale stesso della teoria dei costi comparati.
Risulta così dalla teoria dei costi comparati che in qualsiasi attività dove i salari sono relativamente meno qualificati, i paesi meno sviluppati hanno nei corsi di scambio un vantaggio relativo, e che è nell’equilibrio che si stabilisce l’abbondanza maggiore di questi salari relativamente meno qualificati nei paesi meno sviluppati e che comporta, nei paesi sviluppati, una diminuzione delle remunerazioni dei salari meno qualificati ed un aumento parallelo delle remunerazioni dei salari relativamente più qualificati.
Nei paesi sviluppati vi è in generale un aumento medio dei livelli di vita ma la ripartizione dei redditi che si viene a stabilire penalizza relativamente i salari meno qualificati. Parallelamente, le attività tecnologicamente più avanzate si trovano relativamente penalizzate nei paesi meno sviluppati e il libero scambio le conduce a specializzarsi nelle attività che impiegano un lavoro relativamente meno qualificato.
Questo è l’essenziale degli effetti dei costi comparati nel caso più generale.
CONDIZIONI DI APPLICABILITA’
Da questa analisi occorre concludere che un libero scambio generalizzato su scala mondiale deve essere considerato come vantaggioso e auspicabile? La risposta non può che essere negativa.
Innanzitutto l’analisi considerata si basa su una ipotesi essenziale, generalmente non esplicitata. E’ necessario sapere che la struttura dei costi comparati (vale a dire delle funzioni di produzione nel linguaggio degli economisti) resta invariabile nel corso del tempo.
Nei fatti, in generale, non è così se non nel caso di risorse naturali. Riferendoci all’Europa occidentale, i paesi produttori di petrolio hanno a disposizione un vantaggio comparativo che resterà lo stesso anche nel prevedibile futuro. Allo stesso modo i paesi produttori di prodotti tropicali hanno un vantaggio comparativo che non potrebbe sparire.
Al contrario, nel settore industriale, nessun vantaggio comparativo potrebbe essere considerato come sicurezza di riuscita. Da ciò risulta che la diminuzione o la scomparsa di certe attività in un paese sviluppato a causa di vantaggi comparativi attuali (momentanei) potranno rivelarsi, in un domani, fondamentalmente errati e svantaggiosi quando questi vantaggi comparativi venissero meno, e che questa sparizione necessiterà a termine (nel tempo) il ripristino delle attività soppresse[5].
Infatti, e per esempio, si deve considerare come realmente ingiustificabile una liberalizzazione totale degli scambi con i paesi esteriori all’Unione economica europea, dove le condizioni della produzione, ed in particolare il costo della mano d’opera, nei corsi degli scambi, sono interamente differenti secondo i settori, e dove queste condizioni vengano modificate nel tempo.
Le specializzazioni economiche contemplano delle condizioni e delle garanzie che assicurano una reale stabilità, nel futuro, delle correnti di scambi che loro corrispondono e delle condizioni nelle quali queste correnti vengono effettuate.
In secondo luogo, e anche quando esistano dei vantaggi comparativi di carattere permanente, può essere totalmente contro indicato di lasciare che vengano stabilite delle specializzazioni che riguarderebbero una politica generalizzata di libero scambio. Nel settore dell’agricoltura il libero scambio non avrebbe altro effetto che far sparire quasi totalmente l’agricoltura dall’Unione europea in ragione dei vantaggi competitivi di carattere permanente, o come minimo prevedibili nel futuro, detenuti attualmente per dei paesi come gli USA, la Nuova Zelanda, l’Australia o l’Argentina[6].
Una tale sparizione può essere legittimamente ritenuta come non auspicabile dal punto di vista sociologico e politico, ed è in ogni caso possibile che venga compromessa la sicurezza dell’Unione europea in materia alimentare.
Una conclusione analoga vale ugualmente per il Giappone. Sarebbe assolutamente non ragionevole di voler costringere [il Giappone] ad abbandonare la propria produzione nazionale di riso, compromettendo così pericolosamente la sua autosufficienza alimentare, per la sola ragione che gli USA dispongono in agricoltura di un vantaggio comparativo[7].
E’ altresì vero per un grande numero di paesi del terzo mondo che dispongono di un vantaggio relativamente maggiore per certe materie prime o per certi prodotti tropicali. Una specializzazione eccessiva non può che compromettere la loro autosufficienza alimentare ed il loro sviluppo industriale futuro.
In terzo luogo, è come è stato già indicato, gli aggiustamenti approntati per i vantaggi relativi dei costi comparati comporterebbero, nei paesi sviluppati, qualora si realizzassero, una diminuzione relativa considerevole delle remunerazioni dei salari relativamente meno qualificati, ed un aumento parallelo delle remunerazioni dei salari relativamente più qualificati. Questo movimento divergente è reso impossibile dalla legge o dagli accordi sul minimo dei salari, ed in ogni caso per l’impossibilità sociologica di un accrescimento considerevole delle ineguaglianze considerate dall’opinione come assolutamente non accettabili.
E’ questo meccanismo sottostante, ma con una grande potenza ed assolutamente fondamentale, che è all’origine, per una gran parte, dello sviluppo della disoccupazione dei salari meno qualificati nei paesi occidentali. Se non ci fossero dei minimi salariali e se i salari potessero essere adattati, la maggior parte dei licenziamenti dovuti al libero scambio mondiale avrebbero potuto essere evitati. Ma la depressione di alcuni salari è stata di una tale ampiezza da non poter essere accettabile e accettata.
E’ nel cocktail esplosivo di questi due fattori, la liberalizzazione internazionale degli scambi e la legislazione o gli accordi sul minimo salariale, che è necessario vedere una delle cause essenziali del movimento di fondo che concerne ineluttabilmente tutti i paesi dell’Unione europea, relativamente alla disoccupazione massiccia[8].
L’Unione europea si trova davanti ad una scelta che non può bypassare: o ricorrere ad una politica di preferenza comunitaria e di protezione; oppure proseguire una politica senza limiti di libero scambio, ed accettando le ineluttabili conseguenze, vale a dire: un aumento considerevole delle disuguaglianze sociali, o una disoccupazione maggiore; e a termine, in un caso o nell’altro, ad una esplosione sociale, presto o tardi inevitabile, risultato di una situazione sociale male sopportata e insopportabile.
Infatti, la soppressione delle frontiere doganali e di qualsiasi preferenza comunitaria nei confronti di paesi a basso salario e con capacità tecnologiche non può che condurre per le economie sviluppate a delle specializzazioni anti economiche e generatrici di disoccupazione, e a delle esportazioni maggiori di capitali verso l’esterno, contrarie alle condizioni essenziali del loro proprio sviluppo.
In quarto luogo, ciò che si ricava dalla osservazione e dall’analisi teorica, è che i vantaggi ottenuti nel commercio internazionale derivano in misura maggiore dal miglioramento della produttività sotto la pressione della concorrenza nei mercati che dalla realizzazione di surplus che corrispondono a dei vantaggi comparativi. Questi ultimi sono in generale del tutto sotto stimati.
Infatti, i maggiori guadagni suscettibili d’essere ottenuti dalla liberalizzazione degli scambi non provengono tanto dalle differenze nelle strutture dei costi e dei prezzi, ma dall’incitamento ad una più grande efficacia risultante dalla concorrenza all’interno dello stesso mercato comune di una taglia sufficiente. E’ a questa concorrenza che bisogna attribuire, per la maggior parte della crescita dei livelli di vita nella Comunità economica europea dopo la sua creazione, in particolare dal 1958 al 1974.
In quinto luogo, la liberalizzazione degli scambi non può essere vantaggiosa se le condizioni politiche, nel quadro delle quali viene effettuata, possono essere messe in discussione oppure denunciate, nel breve periodo, oppure se le condizioni stesse non sono stabili. Per avere un risultato benefico la liberalizzazione degli scambi esige un quadro economico e politico comune e stabile con delle istituzioni appropriate.
Le delocalizzazioni[9] costituiscono un fenomeno recente che si è sviluppato per gradi da una ventina di anni, in ragione principalmente del progresso delle comunicazioni e della deregolamentazione dei movimenti di capitali, e di cui l’analisi classica dei costi comparati non tiene alcun conto. Le delocalizzazioni sono restate per molto tempo circoscritte a qualche settore, ma sono attualmente progredite inesorabilmente suscitando ineluttabilmente dovunque disoccupazione nei paesi sviluppati.
Nella situazione attuale esistono tra i paesi sviluppati e i paesi meno sviluppati dei tassi di cambio che, in principio e come ho già detto, compensano gli effetti delle differenze medie di produttività locale[10] uguagliando i livelli medi dei prezzi.
Ma, nel caso molto semplice di due paesi in cui l’equilibrio si è stabilito con una differenza dei carichi salariali globali di 1 a 4, per esempio, nei corsi di cambio, differenza uguale alla differenza media delle produttività, la delocalizzazione parziale o totale di una industria del paese sviluppato permette di assicurare la stessa produttività come nel suo quadro nazionale, con dei carichi salariali globali quattro volte meno elevati. Con un tale procedimento una gran parte o la stessa totalità della produzione nazionale non può più sussistere. La produzione sparisce e tutti i salariati che occupava si trovano senza lavoro. Sarebbe come se l’industria nazionale considerata importasse dei lavoratori immigrati dal paese meno sviluppato e potesse pagarli quattro volte meno dei salariati nazionali fino a questo momento impiegati[11].
Se un tale processo continuasse a svilupparsi non potrebbe che condurre ad una situazione inaccettabile, situazione in cui delle attività sempre più numerose del paese sviluppato verrebbero delocalizzate avendo come risultato una estensione considerevole di disoccupazione e la perdita totale degli investimenti locali. Nella realtà nessuna attività industriale potrebbe sopravvivere a questo processo.
E’ assolutamente falso ammettere senza discussione che un tale processo è creatore di posti di lavoro. E’ vero il contrario ciò che viene constatato. Fondamentalmente questo processo non genera altro che instabilità e disoccupazione.
Risulta inoltre che al di là delle esportazioni necessarie per poter importare i beni che i paesi sviluppati non possono autoprodursi, e per un meccanismo che è solo in apparenza non è paradossale, tutti gli sforzi di questi paesi per esportare, al di là di quanto sia loro necessario nei paesi meno sviluppati, non può che accrescere la loro propria disoccupazione.
Consideriamo, come esempio, il caso molto semplice di due paesi, uno sviluppato e l’altro meno sviluppato. Supponiamo che inizialmente il paese sviluppato produca lui stesso con dei salari relativamente meno qualificati di produzione che il paese meno sviluppato può potenzialmente, e con tecniche comparabili, produrre ed esportare. Supponiamo inoltre che nel corso degli scambi i salari globali orari dei salariati meno qualificati del paese sviluppato siano quattro volte più elevati che i salari globali orari corrispondenti nel paese meno sviluppato. Dato che le bilance commerciali dei due paesi devono essere in equilibrio, i valori globali delle esportazioni e delle importazioni, nel corso degli scambi, debbono essere uguali. Ne risulta allora, nel caso considerato e sotto delle condizioni generali, che qualsiasi creazione di impieghi di 100 nel paese sviluppato, per delle esportazioni supplementari di tecnologia avanzata, corrisponderà, in ragione delle importazioni implicate, una distruzione di posti di lavoro di 400 per i salariati relativamente meno qualificati, da cui deriva una perdita netta di 300 posti di lavoro. L’effetto inverso verrà constatato nel paese meno sviluppato. E’ evidente che al di là del necessario, impegnarsi per esportare dei prodotti di tecnologia avanzata verso un paese meno sviluppato, non può che generare della disoccupazione nel paese sviluppato, quando l’esistenza di minimi salariali si oppone ad un ribasso delle remunerazioni dei salariati relativamente meno qualificati nei paesi sviluppati.
Non si deve guardare solo la bilancia commerciale ma occorre considerare soprattutto la bilancia dei posti di lavoro in quanto potrebbe risultare del tutto deficitaria.
Ci viene detto che il libero scambio su scala mondiale è fondamentalmente un vantaggio per i paesi sviluppati e per tutti i gruppi sociali, dato che abbassa i prezzi e migliora il livello di vita ….
Ma questo argomento non considera assolutamente gli effetti a termine del libero scambio relativamente ai costi di transizione e tutti i costi esterni.
Dove sono i guadagni se si è portati a far sparire delle industrie che prima o poi si dovranno di nuovo allestire?
Dove sono i guadagni se il meccanismo stesso del libero scambio non può che condurre ad un impoverimento maggiore di una gran parte della popolazione ed a una massiccia disoccupazione?
Per quanto relativo ai costi di transizione ed ai costi esterni, il consumatore dovrà alla fine supportare attraverso le imposte il costo che risulta dalla disoccupazione per la collettività[12], ed in ogni caso si dimentica che ogni consumatore è generalmente un produttore.
Che cosa significa per lui il ribasso dei prezzi se perde il suo impiego ed i suoi risparmi e le risorse e se non può permettersi di acquistare niente?
Non si finisce di sostenere che la liberalizzazione mondiale degli scambi non può che essere vantaggiosa per tutti i paesi e per tutti i gruppi sociali e che è una condizione necessaria per l’aumento dei nostri livelli di vita. Viene sostenuto che tale liberalizzazione mondiale degli scambi porta ad una “allocazione ottimale delle risorse”, secondo l’espressione delle teorie americane in voga.
Tali affermazioni sono totalmente sbagliate.
Ciò che l’analisi economica ci insegna è che non esiste una situazione di efficacia massima che corrisponderebbe ad una allocazione ottimale delle risorse. Ve ne sono infinite, ed a ciascuna corrisponde una data ripartizione delle risorse e delle rendite.
Per esempio, relativamente alla situazione attuale del mondo la liberalizzazione degli scambi non può che condurre, a termine, ad un deterioramento crescente dei livelli di vita[13], al meno per il futuro prevedibile. Ancora non è certo, e non per questo è meno dubbioso, che nel contesto attuale la liberalizzazione mondiale degli scambi possa condurre l’insieme del mondo ad una situazione di massima efficacia. Inoltre la teoria semplicistica e naif del commercio internazionale, sulla quale fanno affidamento i grandi guru del libero scambio mondialista, non tiene per niente in considerazione i costi esterni e i costi di transizione e non tiene in alcuna considerazione i costi psicologici, molto superiori ai costi monetari, patiti da tutti coloro che la liberalizzazione degli scambi condanna alla disoccupazione e al non far niente.
Non è superflua l’affermazione: la teoria naif e del tutto semplificatrice del commercio internazionale che ci imbandiscono i turiferari della liberalizzazione mondiale degli scambi è totalmente falsa.
Quali sono le condizioni monetarie della liberalizzazione degli scambi? Sono almeno quattro.
I tassi di scambio giocano un ruolo maggiore nel commercio internazionale dato che il prezzo di qualsiasi prodotto di un paese straniero dipende dal corso della moneta di questo paese. Nel caso in cui può essere giustificato il libero scambio non può essere mutualmente vantaggioso per tutti i paesi partecipanti se non quando i tassi di cambio corrispondono all’equilibrio della bilancia commerciale.
Non è il caso quando certe monete sono manifestamente sottovalutate quando altre sono sopra valutate; infatti il commercio internazionale ha due aspetti indissociabili l’uno dall’altro e non possono essere considerati isolatamente.
Le variazioni disordinate dei tassi di cambio dovute talvolta ad una gigantesca speculazione e al sistema di cambi liberamente fluttuanti, sono tali che la liberalizzazione totale degli scambi non può che risultare nociva. Non solamente le fluttuazioni dei tassi di cambio comportano dei costi considerevoli di aggiustamento, ma gli aggiustamenti che producono non possono che essere considerati irragionevoli quando queste fluttuazioni allontanano ogni situazione di equilibrio.
Infatti il sistema dei tassi di cambio fluttuanti induce non solamente ad una instabilità permanente ma ugualmente a dei tassi di cambio molto lontani dai loro valori di equilibrio.
Anche all’interno della Unione europea le svalutazioni competitive e la fluttuazione delle monete hanno reso totalmente impossibile il funzionamento corretto dell’economia comunitaria sino a che è stata soppressa ogni possibilità di protezione doganale all’interno dell’Unione.
Dovrebbe essere stipulato che qualsiasi fluttuazione della moneta di un paese, all’interno dell’Unione europea, è totalmente incompatibile con il mantenimento del paese nell’Unione stessa. Nessun mercato comune può funzionare senza un sistema monetario che assicuri dei tassi di cambio stabili tra i paesi membri, con dei margini di fluttuazione relativamente rigidi.
Le svalutazioni competitive degli anni trenta dovrebbero servire da esempio.
Una moneta unica europea non potrebbe attualmente costituire una soluzione. Un paese membro dell’Unione europea che accettasse oggi l’instaurazione di una moneta unica e la rinuncia alla propria moneta nazionale, vale a dire alla sua sovranità nazionale, quando le istituzioni ed i limiti geografici[14] dell’Unione europea restano non definiti, costituirebbe un imperdonabile sbaglio politico dalle conseguenze negative incalcolabili.
Un paese i cui interessi vitali non sono stati istituzionalmente garantiti, non è più in grado di difendersi. Una moneta unica che raggruppi qualche paese dell’Unione europea non può che avere degli inconvenienti maggiori.
Una moneta unica non può costituire il completamento finale di una reale unione politica fondata su una base democratica e su deleghe di sovranità ben delimitate in una Carta comunitaria che difenda gli interessi fondamentali di ciascun paese. In ogni caso l’adozione di una moneta unica avrebbe dovuto essere sottomessa a referendum.
Costruire ciecamente l’Europa a marce forzate non può alla fine che dare, come risultato, l’impossibilità di rendere veritiera l’Europa stessa.
L’ampiezza dei flussi finanziari deve essere sottolineata. Ogni giorno, i flussi finanziari, censiti dalla Banca dei regolamenti internazionali, raggiungono in media più di mille e cento miliardi di dollari, vale a dire più di 40 volte il totale dei trasferimenti corrispondenti alle transazioni commerciali internazionali nel mondo. E’ l’importanza dei flussi finanziari speculativi che spiega la straordinaria instabilità del corso del dollaro, come si è visto nel valore rispetto al marco tedesco, passare da 1 a 2 nello spazio di due anni.
Viene così constatato come la pretesa regolazione attraverso i tassi di cambio fluttuanti delle bilance commerciali non ha oggi, nella realtà, alcun significato.
Non si potrebbe in ogni caso sostenere che i flussi speculativi, che vengono constatati, siano giustificati per il fatto che i capitali si spostano là dove la produttività marginale degli investimenti fisici è maggiore.
La gigantesca speculazione che si constata è possibile solo perché è possibile acquistare senza pagare e vendere senza avere il possesso.
Il sistema dei tassi di cambio fluttuanti, associato con la creazione di moneta ex nihilo dal sistema bancario, comporta delle fluttuazioni indotte dei tassi di cambio disastrose per ogni paese che lo riguardi.
Nel suo principio, la speculazione, arbitro tra il presente ed il futuro, non può che essere molto utile. Ma se è possibile acquistare senza pagare e vendere senza detenere, il risultato è completamente altro.
I negoziati del GATT, poi OMC, che portano alla riduzione di qualche punto delle tariffe doganali, sono totalmente futili quando i corsi di certe monete, in particolare il dollaro, variano considerevolmente dai loro valori di equilibrio in seguito a politiche dei governi.
Questi negoziati sono in ogni caso spogliati di qualsiasi significato quando i corsi di certe monete possono variare rapidamente e fortemente sotto l’influsso della speculazione.
La separazione attuale tra le attività del FMI e le attività di OMC costituisce, dal punto di vista economico, una totale aberrazione, in ogni caso irragionevole e indifendibile. Ciascuna di queste organizzazioni ha in effetti per obiettivo di facilitare gli scambi internazionali, e di opporsi alle distorsioni indotte dalla concorrenza ed all’apparizione di perversi squilibri.
PER UN ORDINE ECONOMICO MONDIALE COERENTE ED EFFICACE
Tenendo in considerazione gli insegnamenti dell’analisi economica e l’osservazione dei fati, come stabilire un ordine economico mondiale coerente ed efficace?
Quali sono stati gli errori fondamentali della politica del GATT e dell’OMC?
Quali sono le perversioni del perversioni del libero scambio per quanto riguarda i paesi sviluppati ed i paesi in via di sviluppo?
In quale direzione l’economia mondiale dovrebbe dirigersi con impegno?
Il GATT, dopo la sua creazione nel 1947, poi l’OMC hanno commesso due errori fondamentali
1 – Le perversioni del libero scambismo mondiale
Il libero scambismo non è in realtà che una applicazione inesatta di una teoria corretta, la teoria dei costi comparati. La liberazione totale degli scambi su scala mondiale, perseguita incessantemente dal GATT, deve essere considerata sia come irrealizzabile e sia non auspicabile.
In effetti, una analisi corretta della teoria dei costi comprati non conduce in alcuna maniera alla conclusione che l’applicazione su scala mondiale di una politica generalizzata del libero scambio possa corrispondere all’interesse reale di ogni paese, sia per i paesi sviluppati dell’Europa occidentale, dell’America del nord e del Giappone, e sia per i paesi in via di sviluppo dell’Europa dell’Est, dell’ex Unione sovietica, dell’Africa, dell’America latina e dell’Asia.
Nelle condizioni attuali, l’attuazione senza restrizioni del libero scambismo mondiale non può che arrivare a delle specializzazioni economiche indesiderabili, generatrici di squilibri e di disoccupazione, e comportare per le economie delle perdite molto superiori ai guadagni che si è supposto che potevano essere generati.
All’analisi, sia che si tratti di paesi sviluppati o di paesi in via di sviluppo, tutti gli argomenti presentati in favore di un libero scambismo mondiale si rivelano illusori.
La liberalizzazione totale degli scambi non è possibile e auspicabile se non in un quadro di insiemi regionali, che raggruppano dei paesi economicamente e socialmente comparabili e che si impegnano reciprocamente a non prendere alcuna decisione unilaterale, assicurando nel contempo un mercato sufficientemente allargato affinché la concorrenza possa avvenire in maniera efficace e benefica.
Una economia mondiale totalmente liberalizzata è impossibile senza un ordine politico comune, condizione che attualmente è del tutto irrealista.
2 – Le perversioni monetarie
Lo sviluppo mondialista dei mercati finanziari, l’espansione delle operazioni finanziarie internazionali, il sistema dei tassi di scambio fluttuanti, la deregolamentazione dei movimenti di capitale, la creazione incontrollata dei mezzi di pagamento, una speculazione galoppante, la trasformazione del mondo in un vasto casinò comportano una instabilità permanente dei mercati mondiali ed in particolare dei mercati dei cambi, del tutto incontrollabili. Il risultato, per ogni paese o gruppo di paesi, è di dover mettere al riparo il proprio mercato dai disordini esterni che non possono che comportare degli squilibri e disoccupazione.
LIBERO SCAMBIO MONDIALE E PAESI SVILUPPATI
La politica libero scambista è generatrice di sotto occupazione.
I rapporti dei costi salariali globali nel corso degli scambi nei paesi sviluppati e nei paesi in via di sviluppo, che si tratti, per esempio, dei paesi asiatici o dei paesi dell’est, sono così considerevoli, talvolta da 1 a 10 o ancora di più, che qualsiasi misura prevista nel quadro dell’OMC non potrà realmente porre rimedio agli effetti perversi del libero scambio sull’impiego.
In effetti, con tali differenze, e congiuntamente ad una deregolamentazione totale dei movimenti dei capitali ed al sistema dei cambi fluttuanti, gli effetti perversi del libero scambio mondiale diventano inevitabili, e risulta, nei paesi sviluppati, uno sviluppo tendenzialmente inevitabile di disoccupazione massiccia ed una forte pressione alla riduzione delle remunerazioni degli impieghi meno qualificati.
Così, e come esempio, la politica attuata dalla Commissione di Bruxelles della liberalizzazione degli scambi commerciali con i paesi dell’Europa centrale ed orientale, e attualmente con la Turchia, tutti paesi con bassi salari ed i cui livelli di prezzo e tassi di scambio non hanno al momento alcun significato reale, non possono che portare squilibrio e disoccupazione.
La politica commerciale dell’Unione europea, a poco a poco, ha preso la deriva verso una politica mondialista libero scambista, in contraddizione con l’idea stessa della costituzione di una vera comunità europea. Questa politica mondialista, associata al sistema dei tassi di cambio fluttuanti ed alla deregolamentazione dei movimenti di capitale, non fa che comportare instabilità e disoccupazione, disaggregando il tessuto industriale dell’Unione europea in maniera continua e persistente, riducendo considerevolmente i tassi di crescita ed i livelli di vita.
Si sostiene che i paesi a basso salario come la Cina, vanno a specializzarsi nelle attività a basso valore aggiunto[15], mentre i paesi sviluppati, come la Francia, vanno a specializzarsi sempre più nelle alte tecnologie. Questo significa non saper riconoscere totalmente le capacità di lavoro e di intelligenza del popolo cinese[16]. Continuando a sostenere tali assurdità l’Unione europea va verso il disastro.
Quanto alla Francia, per esempio, l’origine delle difficoltà dell’economia francese che hanno messo fine ai Trenta Gloriosi (1945 – 1974) deve essere ricercato nella politica mondialista che è stata perseguita per quanto riguarda l’immigrazione e soprattutto il libero scambio mondialista, quando nel mondo d’oggi, estremamente pericoloso, si sarebbe dovuto proteggere l’economia comunitaria e l’economia francese, dagli effetti perversi del funzionamento, generatori di profondi squilibri, di una economia mondiale minata e destabilizzatrice in ogni sua parte.
Attualmente la disoccupazione è arrivata in Francia ad un livello insopportabile e intollerabile. Dopo il 1974, il tessuto industriale della Francia si è disaggregato in maniera continua e persistente, e il tasso di crescita del livello di vita si è considerevolmente ridotto.
Si può stimare che la sotto occupazione totale, dovuta al libero scambio mondialista, rappresenta più della metà della sotto occupazione totale che, tenuto conto del trattamento sociale di disoccupazione, supera attualmente la cifra di 6 milioni di persone.
I pseudo rimedi
Di fronte alla disoccupazione massiccia attuale e in assenza di qualsiasi diagnosi realmente fondata, proliferano, in maniera incessante, i pseudo rimedi.
Sui dice ad esempio che tutto è molto semplice: se si vuol sopprimere la disoccupazione è sufficiente abbassare i salari nei paesi sviluppati. Ma nessuno ci dice l’ampiezza che dovrebbe avere questa riduzione, ne se sarebbe realizzabile senza mettere in pericolo la pace sociale. Che le grandi organizzazioni internazionali come l’OCSE, l’OMC, il FMI a la Banca mondiale possano prevedere una tale soluzione è semplicemente sconcertante.
Si dice ancora che sarebbe sufficiente ridurre il tempo di lavoro per combattere la disoccupazione ma, al di là che le risorse non sono perfettamente sostituibili le une con le altre, una tale soluzione non considera totalmente il fatto indiscutibile che troppi bisogni, sovente molto pressanti, restano insoddisfatti. Non è lavorando meno che si potrà realmente portare la soluzione. Ridurre il tempo di lavoro implica, in ogni caso, per i salariati di basso reddito, che bisognerà compensare con delle risorse ottenibili con l’accrescimento delle imposte.
Si sostiene ancora che sarebbe possibile combattere la disoccupazione con l’inflazione. Ma sia che si tratti di disoccupazione dovuta al libero scambio mondialista o di disoccupazione dovuta all’immigrazione extra mondialista con una espansione monetaria e con l’inflazione, significa illudersi e non conoscere, in profondità, la cause reali della situazione attuale.
La situazione attuale, nella sua natura, non è per niente comparabile alla Grande Depressione del 1930.
Per quanto riguarda i paesi del terzo mondo, una liberalizzazione totale degli scambi non può che compromettere la loro sicurezza alimentare e il loro sviluppo industriale.
Come, per esempio, certi paesi (o gruppi di paesi) dell’Africa nera potrebbero senza una protezione ragionevole sviluppare una produzione dell’automobile che potrebbe essere propria quando l’Occidente possiede un vantaggio comparativo esagerato? In realtà un libero scambio mondialista non può costituire, in questo caso, che un nuovo colonialismo.
Nella maggior parte dei casi, vi è un controsenso, e parlando chiaramente un profondo errore, nell’accusare i paesi meno sviluppati, al di fuori della Unione europea, di dumping sociale e di concorrenza sleale e di volere da parte loro dei sistemi di protezione sociale o di protezione dell’ambiente analoghi a quelli dei paesi sviluppati come la Francia o la Germania, e del tutto incompatibili con il loro livello di sviluppo. Tali misure non potrebbero che opporsi al loro sviluppo.
Non sono questi paesi che sono responsabili degli effetti perversi del libero scambio illimitato, ma il quadro istituzionale attuale del sistema del commercio internazionale. Parlare di dumping sociale o di concorrenza sleale è un argomento destituito di qualsiasi fondamento.
In ogni caso non sarebbe possibile fondare una politica ragionevole di sviluppo dei paesi meno sviluppati sulla rovina dei paesi sviluppati e su uno sviluppo massivo della disoccupazione che non potrebbe che portare ad una esplosione sociale.
CHE FARE?
Delle organizzazioni regionali
Una comunità economica non può essere realizzabile e percorribile se non con due condizioni:
Appartenere ad uno stesso spazio geografico; aggregare dei paesi (o dei popoli) che hanno raggiunto un livello di sviluppo economico comparabile e costituito da un tessuto sociale e politico simile[17].
La liberalizzazione degli scambi non ha valore che all’interno di organizzazioni regionali, dotati di mercati comuni che si sviluppano e consolidano in quadri politici comuni.
Una protezione contingentata di ciascuna organizzazione regionale
Ogni organizzazione regionale deve poter sviluppare e consolidare una protezione ragionevole nei confronti dell’esterno per evitare le distorsioni provocate dalla concorrenza e gli effetti perversi delle perturbazioni esterne, e per rendere impossibile delle specializzazioni indesiderabili e inutilmente generatrici di squilibrio e disoccupazione, del tutto contrari alla realizzazione di una situazione di efficacia massimale su scala mondiale associata ad una ripartizione internazionale dei redditi comunemente accettabile.
Davanti alla necessità obbligatoria di proteggere ogni economia regionale contro le perversioni del libero scambismo illimitato, la scelta resta in ogni caso tra due soluzioni:
Una protezione tariffaria non può che urtarsi con delle maggiori difficoltà. I vantaggi indotti da produttività elevate o da bassi salari dei paesi terzi o i vantaggi indotti da cambio differente tra i paesi, e i loro calcoli si scontrerebbero con delle difficoltà manifestamente insormontabili.
La sola possibilità alternativa che sia realista e efficace, è rappresentata dai contingenti di importazione. Ma se si vuole evitare che questi contingenti non creino per gli importatori delle rendite gratuite e discriminatorie che porterebbero ineluttabilmente e rapidamente ad una corruzione generalizzata, la sola soluzione appropriata e di vendere le licenze di importazione all’asta.
Il principio generale sarebbe che, in ogni settore di ciascuna organizzazione regionale, una percentuale data del consumo comunitario, per esempio l’80% in media, sia assicurata dalla produzione comunitaria. Questa è, in effetti, per quanto riguarda la situazione attuale, una disposizione fondamentalmente liberale.
Un tale sistema non avrebbe per effetto di opporsi al libero gioco di una economia di mercato comunitario, ma al contrario di permettere il funzionamento corretto mettendo riparo agli effetti perversi di un preteso ordine mondiale che attualmente non è in realtà che disordine e anarchia.
Non si tratterebbe in alcun modo di isolare totalmente una comunità regionale dalla concorrenza esterna attraverso un protezionismo illimitato. Si tratta solamente di mettere ordine agli effetti disastrosi di un libero scambismo mondialista senza limiti e di una liberalizzazione incondizionata dei movimenti dei capitali che, in assenza di istituzioni appropriate, non cessano di sviluppare i loro effetti perversi.
Si tratterebbe di realizzare una situazione che permette di proteggere, dove necessario, ciascuna comunità regionale salvaguardando contemporaneamente i vantaggi del libero scambio là dove essi esistono effettivamente, e permettendo alla concorrenza internazionale di esercitarsi efficacemente.
Un nuovo ordine internazionale
E’ un errore profondo quello di voler risolvere le difficoltà attuali ricercando dei compromessi da realizzare nel quadro degli obiettivi generali dell’OMC e delle procedure che ne derivano.
Sono in effetti gli obiettivi attuale dell’OMC, vale a dire essenzialmente un libero scambismo mondiale senza limiti e senza considerare i suoi aspetti monetari, che conviene modificare, e, ancora di più, sono i mezzi tecnici che occorre applicare che si debbono modificare, vale a dire la generalizzazione di tasse tariffarie sempre minori e l’esclusione di protezioni quantitative.
L’obiettivo generale della nuova istituzione da creare che fondi in una stessa organizzazione l’OMC e il FMI, dovrebbe essere la costituzione di organizzazioni economiche regionali, fondate ciascuna su un libero scambio intracomunitario e che si proteggano ciascuna ragionevolmente con dei contingenti di importazione in tutti i casi dove delle attività essenziali sono considerate come dover essere mantenute ed in tutti i casi in cui le perturbazioni esterne compromettono un funzionamento efficace dell’economia comunitaria.
La riforma del sistema monetario internazionale
Relativamente al ruolo essenziale giocato di tassi di cambio e dell’impatto delle loro distorsioni, una riforma essenziale sul piano internazionale dovrebbe basarsi sull’abbandono totale del sistema dei tassi di cambio fluttuanti e sostituirlo con un sistema di cambi fissi, eventualmente rivedibili.
In fatti, l’OMC e il FMI dovrebbero essere fusi in una stessa ed unica organizzazione. Questa è una priorità, una urgente necessità. Le negoziazioni sulla liberalizzazione degli scambi internazionali e quelle sul funzionamento del sistema monetario internazionale formano in effetti un tutto indissociabile.
La lotta contro la speculazione destabilizzante
Ogni giorno si dichiara che non vi è nulla da fare davanti alla straordinaria potenza dei mercati monetari mondiali. Ma questi mercati non sono manipolati che da un ristretto gruppo di golden boys che, dentro grandi banche, hanno per missioni di realizzare dei profitti speculando contro le monete con dei mezzi di pagamento creati ex nihilo.
E’ del tutto falso sostenere che non si può fare niente contro i movimenti irresistibili dei capitali che vengono messi in circolazione. In realtà, basterebbe che le grandi nazioni adottassero una legislazione che impedisse alle banche di speculare per proprio conto, e questo è perfettamente realizzabile, affinché le speculazioni massicce e destabilizzanti diventino impossibili.
Le condizioni del nostro futuro
Tutta l’analisi che precede dimostra che il libero scambismo mondiale non è in realtà che una applicazione inesatta di una teoria corretta, la teoria dei costi comparati.
Attualmente, la liberalizzazione totale degli scambi su scala mondiale, obiettivo affermato dall’OMC, deve essere considerato sia come irrealizzabile sia come non auspicabile.
Si pretende oggi che si possa fondare un nuovo ordine mondiale su una totale liberalizzazione dei movimenti di merci, di capitali e, al limite, di persone. Si sostiene che un funzionamento libero di tutti i mercati porterebbe necessariamente la prosperità per ciascun paese e per ciascun gruppo sociale in un mondo liberato da tutte le frontiere economiche. A dire il vero, l’ordine nuovo che ci viene proposto non in sostanza che “lascia fare” (lascia-farismo). E’ questo non è che generatore di instabilità, di disoccupazione e di molteplici disordini.
Nel nome di un pseudo liberalismo, e grazie alla moltiplicazione delle deregolamentazioni, si installa poco a poco una specie di cagnolino mondialista “lascia farista”. Ma questo significa dimenticare che l’economia di mercato non è che uno strumento e che non dovrebbe essere dissociato dal suo contesto istituzionale e politico. Non può esserci economia di mercato efficace se non prende il suo posto in un quadro istituzionale e politico appropriato, e una società liberale non è e non potrebbe essere una società anarchica.
La mondializzazione dell’economia è certamente un profitto per qualche gruppo di privilegiati. Ma gli interessi di questi gruppi non possono essere identificati con quelli dell’umanità tutta intera. Una mondializzazione precipitata e anarchica non può che generare ovunque disoccupazione, ingiustizie, disordini e instabilità, e non può che rivelarsi alla fine uno svantaggio per tutti i popoli nel loro insieme. E non è né inevitabile, ne necessaria, ne auspicabile.
In ultima analisi, nel quadro di una società liberale ed umanista, è l’uomo che costituisce l’obiettivo finale e che deve costituire la preoccupazione essenziale. E’ a questo obiettivo che tutto deve essere subordinato.
Le perversioni del socialismo hanno portato all’affondamento delle società dell’Est. Ma le perversioni lascia fariste di un preteso liberalismo portano all’affondamento delle società liberali.
[1] Libera traduzione dell’articolo scritto nel marzo 1998 sotto il titolo La mondializzazione degli scambi. Mitologie e realtà. Le tesi sono state ritenute valide, dall’economista Maurice Allais, sino alla scomparsa, del Premio Nobel per l’economia (1988 per le teorie dei mercati e l’utilizzo efficiente delle risorse), avvenuta il 9/10 2010 a Saint Claud in Francia, a 99 anni.
[2] GATT (General Agreement on Tarifs and Trade, accordo concluso a Ginevra nell’ottobre 1947 da 23 Paesi (attualmente 37) – Wikipedia
[3] OMC – organizzazione internazionale (200 Stati membri) creata a Ginevra (Ch) il 1/1/1995 allo scopo di supervisionare accordi commerciali fra gli stati membri.
[4] Nel 2020 la situazione non è affatto migliorata.
[5] E’ stata ad esempio la decisione italiana, negli anni ’60, di dare maggiore importanza alle produzioni industriali di auto, elettrodomestici, togliendo risorse e mezzi all’agricoltura ed alla zootecnia.
[6] Si potrebbe aggiungere anche il Brasile e la Thailandia, e, nel contesto intraeuropeo la dipendenza dell’Italia per il 50% del latte e della carne.
[7] Il vantaggio comparato può essere anche una miglior organizzazione che ha come scopo quella di impedire, ad esempio per Italia, di arrivare all’autosufficienza nella produzione di latte e di carne. In questo caso il vantaggio comparato è costituito, da parte dei paesi quali Germania, Olanda, Spagna, Francia, Danimarca, da una più leggera organizzazione del controllo del territorio, da una efficace organizzazione di filiera con lo scopo dell’esportazione e da una quinta colonna, in Italia, che permette di limitare, con qualsiasi mezzo, l’autoapprovvigionamento.
[8] Questo è particolarmente attuale per l’Italia con una burocrazia non comparabile, come quantità e come costo, a quella di qualsiasi altro Paese della Comunità, e con una propensione a farsi carico dei costi dei sottooccupati e/o disoccupati, generando un aumento del debito pubblico.
[9] Il territorio non è delocalizzabile e necessita di manutenzione e di gestione, legata principalmente alle attività agricole.
[10] Robotizzazione, automazione, digitalizzazione, telecomunicazioni ad esempio.
[11] Il caso dei frontalieri in alcuni Paesi con un salario inferiore alle risorse locali, oppure l’utilizzo di forze dell’Est, ad esempio in Germania, in particolare per le attività agricole e di macellazione, con l’accordo della legislazione e non competenza ed ingerenza della magistratura. Un capolarato legalizzato.
[12] Cassa integrazione continuamente procrastinata, pensionamento anticipato, salario di sopravvivenza.
[13] L’Autore si riferisce nell’articolo alla Francia, ma le considerazioni valgono, eccome, anche per Italia.
[14] Ed anche le condizioni fiscali, il salario minimo, il tasso di burocratizzazione, quindi la costruzione politica siano differenti.
[15] Nel 2020 questo errore di prospettiva risulta quanto mai evidente.
[16] Non si considera la perdita di know-how da parte del paese che perde le produzioni e dalla creazione di know-how da parte del paese ritenuto sotto sviluppato. Il know-how è veloce e va in tutte le direzioni sia per quanto riguarda la fase generatrice che la fase di perdita.
[17] Politica fiscale, politica salariale, politica sindacale, politica giudiziaria.
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