Il senso
2024-12-03non sempre ciò che capiamo è quanto tratteniamo da quello che ci viene detto e non sempre ciò che campiamo poi lo applichiamo e se lo applichiamo facciamo del nostro meglio.
Uno studio del 2004 indica per gli USA 17 milioni di tonnellate annue di cibo sprecato dai nuclei familiari a cui si aggiungono 27 milioni di tonnellate annue sprecate dal circuito della distribuzione, compresi i ristoranti ed i fast foods. In UK lo spreco per anno di bevande e cibo sarebbe di 8 milioni di tonnellate.
Lo spreco è una pratica strettamente connessa a legami economici, sanitari, regolamentari ma anche ad abitudini culturali. Contro queste ultime è necessario lottare: la riduzione dello spreco alimentare sia del circuito di distribuzione che delle abitazioni dei consumatori costituisce una sfida ed anche un giacimento inesplorato, per opportunità economiche e di creazioni di nuovi ruoli e funzioni.
Nel XXI° secolo la Terra potrà nutrire il genere umano? A questa domanda possono esserci differenti risposte una delle quali è la riduzione degli sprechi lungo tutta la catena alimentare. Nei paesi ricchi del Nord, abituati all’abbondanza ed a prezzi bassi, la riduzione passa solo attraverso una rivoluzione dei comportamenti. Le spiegazioni degli sprechi riinviano a modi e regole di vita, a delle limitazioni economiche e sanitarie ed anche ad imposizioni regolamentari. A quali condizioni ed in quale misura gli sprechi potranno essere ridotti?
Sull’agricoltura si evidenziano alcune pressioni contraddittorie: rispondere al forte aumento della domanda alimentare, preservare le risorse naturali, manutenere il territorio e l’ambiente. Le riserve di terre e di acqua e le rese sono limitate, la lotta contro le perdite dopo la raccolta e lo spreco alimentare costituisce un limite, una barriera e, nello stesso tempo, lo sfruttamento di un giacimento che può altrimenti essere sfruttato.
Per spreco s’intende l’azione che consiste nell’utilizzare una risorsa in maniera non razionale o con cattivo risultato. E’ la perdita di un bene o di un servizio che viene prodotto per non soddisfare alla fin fine alcun bisogno. La nozione di perdita è simile, ma più radicale, nella misura in cui indica un deficit netto. A differenza dello spreco, le perdite sono quasi sempre legate a dei fenomeni esogeni all’azione umana: accadimenti climatici, malattie, errori nel processo industriale, altro.
Nei paesi del Nord le principali perdite riguardano il circuito distributivo ed il consumo domestico, quello delle famiglie; sono relative quindi a ciò che definiamo come spreco. Numerose pubblicazioni scientifiche appaiono da qualche anno, negli Usa, in UK, in Svezia, inchieste di associazioni di consumatori in Belgio ed in Svizzera, che evidenziano lo spreco del cibo[1].
La tavola 1 mostra, in maniera semplicistica, che le perdite e gli sprechi intervengono in ciascuna tappa della catena alimentare, dopo la coltura nel campo sino al consumo finale delle famiglie.
Pochi studi hanno quantificato con precisione le perdite imputabili ai differenti punti della catena. Da questo punto di vista è necessario distinguere ciò che succede nei paesi ricchi da quello che invece avviene nei paesi poveri.
Nei paesi ricchi vengono perse quantità importanti di alimenti durante le loro trasformazioni, il trasporto, la distribuzione (supermercati o dettaglianti), nei ristoranti e nelle famiglie. La produzione è efficace ma la distribuzione ed i consumatori sprecano quantità considerevoli di alimenti.
Nei paesi poveri al contrario, le maggiori perdite hanno luogo prima di arrivare al consumatore: dal 15 al 35% nei campi, dal 10 al 15% durante la produzione, il trasporto e lo stoccaggio.
Tavola 1 – Perdite e sprechi nelle tappe del circuito produttivo.
Tipi |
Produzione |
Trasformazione e trasporto |
Distribuzione |
Consumo |
||
Attività |
Coltura |
Raccolta |
Vegetali per l’alimentazione umana e animale |
Stoccaggio, trasporto, trasformazione |
Acquisto, ristorazione, grandi e piccole superfici |
Stock, preparazione, cottura, consumo e resti |
Non disponibilità |
Perdite d’acqua. Minor resa |
Perdite nella raccolta |
Perdite legate al processo di trasformazione |
Imballaggio |
Deterioramenti, resti, resi da vendite |
Sovraconsumo, deterioramento e resti |
Nella tesi del 2004 di Jones[2] viene citato che negli USA ogni famiglia, nel 2004, ha sprecato il 14% in peso degli acquisti alimentari, equivalente al valore di 589 US dollari per anno. Tenuto conto dei 73 milioni di nuclei familiari americani, ciò corrisponde a 17 milioni di tonnellate, vale a dire 43 miliardi di US dollari per anno. La ristorazione, i fast foods e il circuito distributivo gettano annualmente 27 milioni di tonnellate di alimenti, vale a dire 68 miliardi di US dollari. E l’alimento è scartato anche se ancora in perfetto stato per essere mangiato. Le quantità maggiori riguardano i farinacei, in primo luogo il pane, poi i legumi, la frutta e infine la carne.
Recenti dati in UK[3] riportano che 8,3 milioni di tonnellate di cibi e bevande vengono gettate, di cui il 75% avrebbe potuto essere ancora consumato. Lo spreco è stimato in 545 € per anno e per nucleo familiare (772 € per i nuclei familiari con bambini), vale a dire circa 55 € per mese. Lo spreco corrisponde al 25% degli acquisti alimentari in volume, con delle variazioni secondo i prodotti: 7% di latte, 36% di pane e > 50% di insalate.
Tavola 2 Spreco in UK nel 2009 – Cibo gettato che avrebbe potuto ancora essere consumato – (fonte wrap)
Tipo di alimento |
Tonnellate |
Legumi freschi |
860.000 |
Bevande |
870.000 |
Frutta fresca |
500.000 |
Pane e brioches |
680.000 |
Piatti preparati |
660.000 |
Pesci e carni |
290.000 |
Latte e uova |
530.000 |
Dolci |
190.000 |
Snack/caramelle |
67.000 |
Al di là di queste cifre il documento di Strategy Unit[4] analizza le principali caratteristiche del settore alimentare, della produzione sino al consumo per suggerire alcuni interventi pubblici. Una delle raccomandazioni riguarda lo spreco, e insiste sugli aspetti economici e ambientali.
In Francia non ci sono dati così precisi. Uno studio recente di Ademe[5] rivela che 7 chili di prodotti alimentari non consumati e ancora imballati sono gettati per anno e per abitante, senza ulteriori dati. In Italia non abbiamo trovato dati in proposito. Sempre in Francia vi è uno studio[6] relativo all’industria agroalimentare che esamina i processi di trasformazione di tutte le filiere agroalimentari quantificando i coprodotti ed i sotto prodotti. I coprodotti sono utilizzati nell’alimentazione degli animali e i sotto prodotti hanno altri sbocchi: spandimento, energia, ad esempio l’insieme della prima trasformazione di prodotti vegetali. La quantità tal quale raggiunge le 17,6 milioni di tonnellate per anno, che corrisponde a 9,5 milioni di tonnellate di materia secca. Quattro filiere generano l’82% dei volumi che sono utilizzati nell’alimentazione animale: gli zuccherifici per il 33%, l’industria olearia per il 23% e le industrie dell’amido che forniscono delle proteine (13%), i mulini (13%).
Per contro le produzioni animali (carne e latte per un totale di 0,55 milioni di tonnellate) incontrano maggiore difficoltà a valorizzare i loro sottoprodotti a causa della rapida degradazione e dei regolamenti: il 75% di questi rifiuti, vale a dire circa 0,3 milioni di tonnellate di farina di carne, viene bruciato, dopo la crisi per la BSE.
Gli sprechi alla distribuzione sono poco conosciuti: quelli della ristorazione e della collettività sono assimilati alle quantità dei rifiuti delle famiglie.
I rifiuti della piccola e grande distribuzione sono distrutti in quanto costerebbe troppo il loro ritorno alle fabbriche. Gli scarti (non conformità, confezioni non perfette, invenduti) sono una grande quantità e vengono messi nei cassoni ancora con il loro imballaggio. Si sa che esistono delle unità produttive di “disimballaggio” per riciclare una parte di questi prodotti in alimentazione animale, ma le quantità sono sconosciute.
Qui di seguito viene proposto in forma grafica lo schema di sintesi delle quantità di alimenti prodotte globalmente al campo e la stima delle perdite, trasformazioni e sprechi, nel percorso della catena alimentare. I dati sono in kilocalorie/giorno(persona). Fonte: Lundqvist, Fraiture, Molden op. cit.
Si parte da una produzione di 4.600 kg cal/giorno/persona per arrivare alle calorie disponibili per il consumo netto = 2.000 kg cal/giorno/persona.
Doni sono fatti a delle associazioni caritatevoli, e vengono eseguiti dei reimballi ma queste pratiche sono al limite della regolamentazione sanitaria, sconosciuti sono la loro importanza e le quantità. Carrefour, in Francia, avrebbe fornito 960 tonnellate di doni alle associazioni nel 2008, la Federazione delle imprese di commercio e della distribuzione, sempre per il territorio francese, rende noto che i propri aderenti forniscono il 29% dei prodotti raccolti attraverso i banchi alimentari, i quali confermano che hanno ricevuto 23.000 tonnellate di alimenti, vale a dire l’equivalente di 46 milioni di pasti, sempre nel 2008.
In UK, FareShare, la federazione delle banche alimentari, ritiene che potrebbe ridurre di 1,6 milioni di tonnellate i rifiuti alimentari, qualora disponesse di mezzi logistici per recuperare e distribuire gli alimenti ancora consumabili che vengono gettati. Ne ha recuperati 2.000 tonnellate nel 2007 che hanno permesso di distribuire 3,3 milioni di pasti.
Dalle pubblicazioni citate, tanto per i paesi poveri che per i paesi ricchi, le perdite e gli sprechi vengono stimati nel 55% dei raccolti. Questo dato fornisce l’idea del margine di manovra di cui disponiamo per il futuro, dato che l’aumento delle rese e dell’estensione delle terre coltivabili è largamente inferiore anche negli scenari più ottimisti.
Tendenze e segnali
Si possono notare delle trasformazioni degli atteggiamenti e dei comportamenti degli attori che possono portare a dei cambiamenti strategici così come una presa di coscienza della necessità di trattare l’argomento come un vero e proprio “problema pubblico”.
Il settore agricolo e le industrie agroalimentari debbono necessariamente, e da tempo, contenere i costi di produzione e limitare le perdite. Lo spostamento dell’impiego di coprodotti e sottoprodotti dall’alimentazione animale a quella umana è oggetto di progetti di R&D. L’agroalimentare riscopre il funzionamento dei parchi eco industriali, principio secondo il quale i rifiuti di uno sono le materie prime dell’altro. Un tempo si è parlato di materie prime seconde. Facciamo due esempi:
– Prima i noccioli delle prugne venivano gettati e le industrie dovevano pagare per lo smaltimento. Oggi una industria di Agropole d’Agen li recupera, separa le mandorle e le pressa per estrarre un olio molto profumato, la parte di nocciolo che resta viene utilizzato come combustibile.
– Il siero di latte che gocciola dai formaggi, prima dato ai suini, viene dissalato, seccato, e viene utilizzato quale base per alcune preparazioni di proteine ad alta qualità.
Vi possono essere numerosi altri esempi.
Per quanto riguarda la logistica e lo stoccaggio, sono stati ottenuti significativi miglioramenti per quanto riguarda i contenitori, la gestione degli stock, l’automatizzazione degli ordini. Gli imballaggi evolvono per evitare sprechi: porzionamenti e frazionamenti, chiusure di sicurezza, sistemi di richiusura per impedire modificazioni delle specifiche qualitative dei prodotti stessi.
Notevoli miglioramenti evolutivi si registrano nei circuiti del recupero e della riutilizzazione: banche alimentari, cooperative di recupero, circuiti per il riconfezionamento, ad esempio. Negli Usa questo tipo di iniziative viene largamente finanziato da Farm Bill, per un valore di circa 40 milioni di US dollari per anno. Nella UE i circuiti di recupero si riforniscono soprattutto per i surplus delle produzioni. Questi surplus, con il miglioramento della gestione degli ordini, dei lotti di produzione e della gestione dei magazzini saranno ridotti, e le banche alimentari stanno valutando la possibilità di rifornirsi verso i resti e gli scarti della distribuzione e i rifiuti e gli invenduti della grande distribuzione. Presso il Parlamento Europeo si dibatte in merito al finanziamento delle banche alimentari: il budget annuale proposto dalla Commissione è di 90 milioni di euro mentre i parlamentari domandano di triplicare tale valore.
La distribuzione è una tappa in cui lo spreco si manifesta in maniera importante: numerose manipolazioni, deterioramento dovute al self service, rotture nella catena del freddo, gestioni più o meno precise degli stocks, altro. Sul piano commerciale, le date di scadenza sono difficilmente comprese: un numero limitate di consumatori fanno la differenza tra data limite di consumo e la data di consumo ottimale. La prima riguarda i prodotti freschi che possono presentare un reale problema microbiologico. La seconda riguarda i prodotti di drogheria, conserve o surgelati, ed ha un rapporto solo con la qualità organolettica. La generalizzazione di queste date su prodotti stabili ostacola la loro distribuzione in quanto i consumatori non sufficientemente formati hanno paura. Da una parte la generalizzazione uniforma le norme, tanto europee quanto del Codex Alimentarius , ma promuove uno spreco: si getta per prudenza, rispettando una regola non ben compresa, in mancanza di tests rapidi e precisi. La ristorazione getta tutti i suoi invenduti per misure di igiene, ed anche perché i prodotti che utilizza non sopportano la conservazione: una michetta di pane non è più ritenuta mangiabile dopo sei ore dalla cottura, le bistecche non vengono più vendute quindici minuti dopo la loro cottura, e vi sono altri esempi.
Il consumo finale, nella sfera domestica, è un’altra fase di spreco. Le famiglie acquistano troppo, talvolta in maniera impulsiva, cucinano troppo ed hanno perso l’abitudine di riutilizzare i resti e di gestire al meglio il contenuto del frigorifero o del refrigeratore. In un contesto di aumento dei consumi gli ostacoli (affitto, abbonamento, salute, trasporti) rappresentano un giacimento del potere di acquisto significativo e facilmente modificabile. Le buone pratiche e le regole di gestione potrebbero favorire delle campagne di informazione oppure delle azioni di formazione, attraverso la grande distribuzione oppure i lavori sociali. Vi è anche una questione di cultura in quanto in numerosi paesi, è impensabile mangiare ciò che resta.
Alcune esperienze utili
Nelle nostre società dell’opulenza, attraversate da importanti inegualità sociali, vengono sempre taciuti i circuiti paralleli di recupero, per i più poveri, o delle contro culture di contestazione, quali il freeganismo[7] attuale, che è uno stile di vita anticonsumista dove le persone utilizzano strategie di vita alternative basate su partecipazione, limitata nell’economia convenzionale, e sul minimo consumo di risorse. Lo stile consiste nel recupero degli scarti, soprattutto nel prendere cibo in scadenza dai supermercati, i quali lo butterebbero senza averlo venduto. Il cibo non viene recuperato perché i fregani sono poveri o dei senzatetto ma come dichiarazione politica. Non si tratta di una strategia per sopravvivere ma di una filosofia del rifiuto della società consumistica: i fregani sono generalmente attivi, urbani, giovani, educati e rifiutano di seguire lo spreco dell’industria agroalimentare. Da parte delle persone in situazione di precarietà si sviluppa il glanage, quale diritto d’uso della produzione agricola esistente in Francia, sotto differenti forme, nel Medio Evo. Dopo la mietitura è autorizzata la raccolta della paglia e dei grani. Attualmente viene svolto al recupero alimentare alla fine dei mercati e nelle discariche dei supermercati e dei ristoranti. Vi è un rapporto pubblico sull’argomento[8].
Queste reazioni di gruppi minoritari indicano che vi sono problemi sociali e correnti culturali che attraversano la società dell’opulenza. L’estensione di queste di queste pratiche risponde a delle particolari situazioni e non può essere considerata come una risposta collettiva allo spreco. Solamente la presa di coscienza potrà risultare efficace in quanto influenzerebbe l’atteggiamento ed il comportamento della massa.
Un modo di sensibilizzare il consumatore relativamente allo spreco è di mostrare a loro le conseguenze, in termini di sviluppo durevole o di pressione sulle riserve di acqua. Ogni alimento di base rappresenta in effetti un determinato quantitativo di acqua che viene consumata per produrlo, trasformarlo, imballarlo, prepararlo. Occorrono ad esempio 1.000 litri di acqua per produrre un kg di farina e 16.000 litri di acqua per un kg di carne rossa. Viene gettata una vasca da bagno di acqua virtuale (volume di acqua necessario alla produzione di un bene o di un servizio) per ogni kg di pane raffermo. Gettare un alimento è come lasciare un rubinetto di acqua aperto. Si calcola che negli USA lo spreco alimentare equivalga a 40 miliardi di metri cubi di acqua sprecata, vale a dire il bisogno annuale di 500 milioni di persone[9].
La riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra è una seconda opzione legata alla diminuzione dello spreco. I media inglesi riprendono il rapporto di Strategy Unit ricordando che gli obiettivi della riduzione dello spreco alimentare equivale a togliere una vettura su quattro dalle strade del Regno Unito. Vi è in UK una vera presa di coscienza delle implicazioni del fenomeno dello spreco “Ridurre lo spreco e limitare l’effetto serra”.
A livello della distribuzione e del consumo vi sono i maggiori margini di manovra. In UK la lotta allo spreco è divenuta una priorità. Le conclusioni del rapporto di Strategy Unit sono state seguite dal capo del Governo che ha tenuto un discorso molto volontaristico alle grandi superfici di distribuzione, chiedendo di cessare, ad esempio, le offerte “tre per due”, in quanto questi acquisti d’impulso costituiscono il 20% delle cause dello spreco. Sul web è stata lanciata una campagna promozionale “amate il cibo detestate il rifiuto” (Lofe food, hate waste)[10]. Il totale gettato dalle famiglie è stimato in 650.000 tonnellate di alimenti consumabili, l’obiettivo è di ridurlo di 30.000 tonnellate nel 2009 e di 15.000 tonnellate nel 2010, incoraggiando parallelamente il compostaggio.
Cosa si potrebbe fare nel nostro paese? Quali ruoli potrebbero giocare i poteri pubblici e attraverso quali canali? Gli interventi potrebbero avere tre interessi:
1) Riduzione della quantità di rifiuti da trattare, con delle conseguenze sulle emissioni di gas a effetto serra e imposte locali;
2) Aumento del potere di acquisto delle famiglie (si potrebbe risparmiare da 500 a 600 € per famiglia per anno).
3) Effetto benefico sull’equilibrio nutrizionale e l’obesità.
Nella distribuzione possono essere incoraggiate delle iniziative per la razionalizzazione delle piattaforme per le materie prime seconde e per i circuiti di recupero. Ad esempio riconfezionare gli invenduti a favore delle banche alimentari.
Lo sviluppo dell’economia numerica e degli ordini via internet diminuisce lo spreco legato alla manipolazione delle consegne, le rotture della catena del freddo, ai differenti deterioramenti provenienti dal consumatore. Ci sono delle difficoltà da superare nella consegna dei prodotti a scadenza ad orari compatibili con la disponibilità dei clienti e dei locali, che attualmente limitano la larga diffusione.
La riduzione dello spreco passa ugualmente dalla riflessione approfondita sui rischi, la durata di vita dei prodotti e sulle norme dell’etichettatura, che potrebbero essere rivisti in un “pacchetto igiene”. Il finanziamento delle banche alimentari è stato oggetto di un dibattito al Parlamento Europeo, nel quadro della politica agricola comune, così come accade negli Usa. I doni alle banche alimentari potrebbero essere uno degli sbocchi per l’utilizzazione dei resti dei dettaglianti, rivedendo le norme miopi delle ASL attuali. Le norme per i dettaglianti oggi sono simili a quelle per la grande distribuzione e questo non crea valore.
Per il grande pubblico e la ristorazione l’iniziativa potrebbe riguardare la comunicazione in materia di sviluppo durevole, lanciando delle campagne di sensibilizzazione migliorative della gestione familiare. Le famiglie normalmente non sanno quantificare le quantità di loro rifiuti, ecco un argomento da approfondire e da studiare e da comunicare.
Un’altra iniziativa potrebbe essere la riduzione delle porzioni nella ristorazione collettiva, attraverso una revisione dei pesi iscritti nelle norme del mercato pubblico dietro studi di dietologi. Si stima che vengono gettati 200 grammi di cibi per persona e per pasto nelle mense dei licei, una gran parte rappresentata dal pane.
Azioni di formazione destinate alle nuove generazioni potrebbero essere applicate. Inserire nel programma scolastico un corso di gestione relativo alla cucina, a seguire una ricetta, a rispettare la base dell’igiene, al recupero dei resti. Vi sono degli esempi da seguire[11].
L’azione pubblica dovrebbe contribuire a riabilitare i comportamenti economi: ciò che gettiamo costa dei soldi, non solamente come consumatore ma anche come imprenditori e cittadini, come comunità. Tutto ciò costa anche in risorse rare, in spese intermediarie, in acqua ed in energia. La volontà di ridurre lo spreco si inscrive perfettamente nella dinamica dello sviluppo durevole e della lotta contro l’effetto serra. Da un punto di vista strettamente agricolo, tutte le perdite della catena alimentare contribuiscono ad esigere a monte una riduzione dei costi.
Prima di cercare di cambiare i comportamenti è necessario aiutare a prendere coscienza della realtà dello spreco e di quantificarlo con maggior precisione. La maggior parte delle quantità sprecate sono legate a delle abitudini e modi di vivere che passano inosservati agli occhi degli attori che il più delle volte non si rendono conto di gettare dei beni o di perdere dei soldi. Il progresso tecnico della conservazione ed il ribasso continuo dei prezzi (avvenuto dopo gli anni 1950) hanno ridotto il valore non solo mercantile ma anche simbolico dell’alimentazione. Considerare lo spreco come anormale è una nozione da riscoprire individualmente e collettivamente.
Si potrà parlare di alimentazione durevole. Di alimentazione legata al territorio. Stiamo anche qui costruendo il terzo scenario.
[1] Saving Water, From Field to Fork – Curbing Losses and Wastage in the Food Chain – Lunqvist, Fraiture, Molden (2008)
[2] Using Contemporary Archaeology and Applied Anthropology to Understand Food Loss in American Food System – Jones – 2004 (tesi)
[3] www.wrap.org.uk/retail/case_studies_research/report_household.html
[4] Food Matters: Towards a Strategy for the 21st Century – Executive Summary – 2008
[5] Campagne nationale de caractérisation des ordures ménagères – 2007
[6] Gisements des coproduits, sous-produits et déchets des industries alimentaires – 2005
[7] Vedi Google Freganismo o Fregani
[8] Les Glaneurs aimentaires – Rapport d’étude qualitative – 2009
[9] Lundqvist, Fraiture, Molden op.cit.
[10] www.wrap.org.uk
[11] www.lovefoodhatewaste.com
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