Lido di Minusio – Mi trovo a conversare con altri addetti ai lavori che lamentano i regolamenti. La UE produce meno direttive, che potevano essere recepite in maniere differenti nei vari paesi, ma regolamenti, almeno per quanto riguarda la sicurezza alimentare. Ed i regolamenti non possono essere variati dai singoli paesi ma presi tout court. I regolamenti sono stati messi a punti, discussi, limati, emendati ed alla fine definiti con anni di lavori. Chiaramente le metodologie e la struttura degli allevamenti, della preparazione dei cibi dell’europa del nord la fanno da padroni. Per l’italia la fattura è salata: oltre ad essere un paese fortemente importatore deve anche fare degli investimenti non previsti, in quanto tutta l’architettura non è stata modellata sull’esempio italiano ma su quello del nord europa. Siamo all’agenzia per la sicurezza alimentare alla Finlandia. Ma questa è la nostra impotenza politica ed organizzativa. Il regolamento descrive la tradizionale struttura dell’europa del nord . In particolare mi sto riferendo al benessere animale. Ovaiole a terra ed allevamento delle scrofe e dei suinetti. Chiaramente il regolamento è la descrizione della struttura esistente nell’europa del nord. Ma come sostiene qoelet c’è un tempo per discutere e far valere anche la propria specificità, magari mettendo dei veti, e c’è il tempo dell’osservanza scrupolosa. I regolamenti sono stati approvati e sono stati pubblicati, è stato indicato un periodo per l’adattamento ed ora sono in vigore. Un regolamento NON lo si discute, lo si osserva. Clamorosa ancora una volta, ma per me non è una novità, l’assoluta frammentazione ed inanità delle differenti associazioni e universitari che hanno partecipato alle discussioni tecniche: non abbiamo imparato niente, ma proprio niente dalle quote latte. A suo tempo (vi sono le pubblicazioni del Notiziario) suggerii a filippo maria pandolfi, che dovette dire la cifra della produzione di latte italiana, di risolvere il problema gordianamente: 1 – non fidarsi dei dati delle varie associazioni o istituzioni provinciali, regionali o nazionali. 2 – Parlare dopo il funzionario olandese: prendere la quantità da questi enunciata, dividerla per 14 (milioni di abitanti dell’allora olanda) e moltiplicarla per 55 (milioni di abitanti dell’allora italia). Ma così non avvenne e pensando di dare cifre che coprivano il fabbisogno nazionale ci trovammo a dare cifre che NON arrivavano al 50%, mentre gli olandesi dichiararono, impunemente, di produrre il 280 rispetto al 100 consumato. Ma da questo dovevamo ottenere dell’esperienza.
Strettamente parlando di benessere animale mi permetto, pur non essendo tecnico, di fare alcune osservazioni:
ovaiole: se allevate a terra necessitano di trattamenti con sostanze chimiche, denominate “coccidiostatici”. Proprio perché l’animale viene assalito dai coccidi presenti nelle deiezioni di altri volatili ed animali, coccidi che si sviluppano velocissimamente nell’organismo dell’ovaiole. Quando si decise di allevarle in gabbia, questa fu una delle ragioni: niente più coccidiostatici. I coccidi sono talmente potenti che ogni tre mesi si deve cambiare la molecola chimica anticoccidica perché i coccidi sviluppano rapidamente l’assuefazione al killer chimico. Ora il regolamento prevede che tutte le ovaiole siano a terra. Ecco una splendida occasione per presentare al consumatore delle uova provenienti da galline allevate in gabbia, quindi non osservanti del regolamento, che però sono ottenute da galline che NON ricevono quotidianamente e per tutta la loro vita produttiva delle sostanze chimiche chiamate coccidiostatici. E’ una operazione di marketing. Ci si nicchia per divenire una specialità in mezzo ad un regolamento conformista: per il regolamento “tutte le uova prodotte nella comunità sono uguali”, non è così e se anche fosse, i consumatori non vogliono quasi mai l’uniformità. Accanto quindi al grosso della produzione massiccia a terra c’è spazio, ma ci vuole imprenditorialità per una produzione di nicchia, magari venduta come se fossimo in una farmacia, all’incontrario.
Suini: il suino italiano è differente da quello degli altri paesi perché è più pesante. Arriva a 160 kg ed oltre per la necessità di produzione del prosciutto italiano. Gli altri paesi producono un suino da 90 kg, in certi casi da 80 kg. Morale: in italia il maiale viene allevato per oltre 8 mesi, altrove per meno di 4 mesi. Dove sta il benessere animale? Possiamo permetterci di non tenere in conto quei 4 mesi, che rappresentano il 100% in più di vita? In effetti il regolamento prevede uno spazio alle scrofe ed ai piccoli per permettere ai paesi del nord di divenire il reparto maternità della suinicoltura europea. Ma anche qui acquista valore la comunicazione di marketing.
Suini 2 – la castrazione viene descritta come “sofferenza”. E questo lo “sento”. Ma il capponaggio è nel dna italico. Quindi al di là del sapore “olet hircum sub alis” del non castrato che cambierebbe il sapore dei nostri salumi e prosciutti, vi è la fragranza e il sapore del “cappone” = castrato. Qui marketing a caterve. Ma manca la comunicazione della specificità. Questa ha un maggior impatto se attuata da associazioni, da marchi, ha meno impatto se eseguita da singoli. Ma non è più il mio tempo.
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