nullo die sine linea
2025-02-24scrivere e leggere sono legate alla riflessione profonda. diversamente dovremmo trovare altri verbi. Balbettare, mormorare, altro
Di papà che facevano l’operaio ce n’erano, meno di quelli che non bevevano, meno ancora di quelli che leggevano libri o parlavano al di fuori dell’osteria. Pochi quelli che non sentivi continuamente litigare.
Lo stesso vale per mia madre, ma la differenza era forte tra i padri. Il mio per me era un esempio. E sentivo che la era la differenza anche con i miei amici e che anche loro, senza aver mai affrontato l’argomento, la notavano. “Tuo padre però ….”, e c’era ammirazione. Avevo il dovere di assumermi la responsabilità di onorare l’esempio: lavorava bene, era richiesto, suonava il piano, era richiesto, lo interpellavano se avevano bisogno di un consiglio. Quando quattro benestanti, il banchiere, il macellaio, mio zio Pietro, forno e drogheria, il farmacista avevano organizzato il cinema, in concorrenza con quello parrocchiale, mio padre era stato chiamato a far parte della società e si occupava di noleggiare, a Milano, i film, anche audaci, faceva parte della gestione, i biglietti erano tanti e la gente veniva anche da altri paesi. Non l’ho mai visto litigare, tranne una volta, sulla strada, proprio per una pellicola e davanti al cinema, e tutti mi avevano detto che aveva ragione e che aveva vinto.
Quando facevo il paragone con gli altri padri, e lo facevo, il mio era almeno una spanna in più del migliore che conoscevo.
C’era poi la faccenda dell’inverno. E mio padre mi raccontava cosa si faceva nella sua famiglia in inverno. Strano, mia madre non me ne ha parlato, e quando le chiedevo qualcosa, glissava. Della vita in famiglia di mia madre so molto poco, che sua madre era morta nel dare alla luce la sorella più piccola, Stella, e che lei aveva due anni, ed in questo caso le ragioni sono due: o c’è molto poco da sapere, e molte volte questo non è mai vero, oppure è meglio che non lo si sappia.
La famiglia di mio padre era tutta di falegnami. Andando indietro nella memoria si incontrano falegnami e più indietro ancora i stalàss, che, mettendoci le zeta dove ci vogliono, erano gli stallazzi, ricoveri per carri con annessa osteria, stalla per i cavalli e botteghe per riparare finimenti, artigiani per pelli e poi tappezzieri, e carri. Quando poi vi furono sufficienti case e fattorie il falegname si stanziò in paese per fabbricare attrezzi e mobili per committenti più o meno fissi. In paese operavano tre famiglie di falegnami, tutte con il mio stesso cognome. I clienti di mio nonno erano le cascine. Di mobili se ne costruivano pochi. Ogni sera d’inverno la famiglia, mio nonno, tre fratelli, mia nonna ed una sorella, avevano un compito: i maschi preparavano i rastrelli ed almeno un carro, le donne i lavori di cucito.
La faccenda dei rastrelli mi è sempre rimasta impressa. Mi immaginavo la stanza-bottega ed ognuno intento ad una parte di lavoro. I rastrelli variavano per il numero dei denti. Ve ne erano di normali a 13, 14, 15 denti e poi quelli grandi che arrivavano fino a 100 denti. Nelle marcite dopo il taglio dell’erba si mettevano in tre, non in parallelo, per raccogliere ed accatastare l’erba. Il numero da preparare per febbraio era intorno a cinquanta grandi e centocinquanta normali, da suddividersi fra le diverse cascine. Mio padre, piccolo, preparava i denti. Quelli del rastrello.
La costruzione del carro, quattro ruote con il timone, era mitica, con l’indicazione dei tipi di legno necessari per le stanghe, per il mozzo, e con la descrizione del cerchiaggio, da effettuarsi una domenica, sul fuoco, nel cortile. Un carro nuovo si vendeva a duemiladuecento lire. “Lire di allora”.
E da qui inevitabilmente il discorso si portava sulla paga oraria di un operaio e su quello che costava un etto di bulògna.
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