Il senso
2024-12-03non sempre ciò che capiamo è quanto tratteniamo da quello che ci viene detto e non sempre ciò che campiamo poi lo applichiamo e se lo applichiamo facciamo del nostro meglio.
Di papà che facevano l’operaio ce n’erano, meno di quelli che non bevevano, meno ancora di quelli che leggevano libri o parlavano al di fuori dell’osteria. Pochi quelli che non sentivi continuamente litigare.
Lo stesso vale per mia madre, ma la differenza era forte tra i padri. Il mio per me era un esempio. E sentivo che la era la differenza anche con i miei amici e che anche loro, senza aver mai affrontato l’argomento, la notavano. “Tuo padre però ….”, e c’era ammirazione. Avevo il dovere di assumermi la responsabilità di onorare l’esempio: lavorava bene, era richiesto, suonava il piano, era richiesto, lo interpellavano se avevano bisogno di un consiglio. Quando quattro benestanti, il banchiere, il macellaio, mio zio Pietro, forno e drogheria, il farmacista avevano organizzato il cinema, in concorrenza con quello parrocchiale, mio padre era stato chiamato a far parte della società e si occupava di noleggiare, a Milano, i film, anche audaci, faceva parte della gestione, i biglietti erano tanti e la gente veniva anche da altri paesi. Non l’ho mai visto litigare, tranne una volta, sulla strada, proprio per una pellicola e davanti al cinema, e tutti mi avevano detto che aveva ragione e che aveva vinto.
Quando facevo il paragone con gli altri padri, e lo facevo, il mio era almeno una spanna in più del migliore che conoscevo.
C’era poi la faccenda dell’inverno. E mio padre mi raccontava cosa si faceva nella sua famiglia in inverno. Strano, mia madre non me ne ha parlato, e quando le chiedevo qualcosa, glissava. Della vita in famiglia di mia madre so molto poco, che sua madre era morta nel dare alla luce la sorella più piccola, Stella, e che lei aveva due anni, ed in questo caso le ragioni sono due: o c’è molto poco da sapere, e molte volte questo non è mai vero, oppure è meglio che non lo si sappia.
La famiglia di mio padre era tutta di falegnami. Andando indietro nella memoria si incontrano falegnami e più indietro ancora i stalàss, che, mettendoci le zeta dove ci vogliono, erano gli stallazzi, ricoveri per carri con annessa osteria, stalla per i cavalli e botteghe per riparare finimenti, artigiani per pelli e poi tappezzieri, e carri. Quando poi vi furono sufficienti case e fattorie il falegname si stanziò in paese per fabbricare attrezzi e mobili per committenti più o meno fissi. In paese operavano tre famiglie di falegnami, tutte con il mio stesso cognome. I clienti di mio nonno erano le cascine. Di mobili se ne costruivano pochi. Ogni sera d’inverno la famiglia, mio nonno, tre fratelli, mia nonna ed una sorella, avevano un compito: i maschi preparavano i rastrelli ed almeno un carro, le donne i lavori di cucito.
La faccenda dei rastrelli mi è sempre rimasta impressa. Mi immaginavo la stanza-bottega ed ognuno intento ad una parte di lavoro. I rastrelli variavano per il numero dei denti. Ve ne erano di normali a 13, 14, 15 denti e poi quelli grandi che arrivavano fino a 100 denti. Nelle marcite dopo il taglio dell’erba si mettevano in tre, non in parallelo, per raccogliere ed accatastare l’erba. Il numero da preparare per febbraio era intorno a cinquanta grandi e centocinquanta normali, da suddividersi fra le diverse cascine. Mio padre, piccolo, preparava i denti. Quelli del rastrello.
La costruzione del carro, quattro ruote con il timone, era mitica, con l’indicazione dei tipi di legno necessari per le stanghe, per il mozzo, e con la descrizione del cerchiaggio, da effettuarsi una domenica, sul fuoco, nel cortile. Un carro nuovo si vendeva a duemiladuecento lire. “Lire di allora”.
E da qui inevitabilmente il discorso si portava sulla paga oraria di un operaio e su quello che costava un etto di bulògna.
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