G.G.
2024-07-26Un ricordo personale di una figura importante
La nebbia è la cosa che posso, oltre che ricordare, quasi toccare con le mani e sentirne l’odore. La nebbia, anzi le nebbie di Lodi Vecchio. E mentre mia madre in cucina preparava una pastina sulla stufa ero lì ad aspettare il ritorno di mio padre. Lo aspettavo e lo ritrovavamo immenso. Era una cucina piccola, con una stufa che andava a legna con dei cerchioni sul pianale, via via più piccoli, che lasciavano il posto alle pentole, una per ogni misura, in tutto cinque o sei pentole, da quella per il caffè, o meglio con la miscela Leone, a quella grande che serviva per la polenta. La stufa era di fianco alla porta, di colore verde, che dava sul portico. Tra la porta, a due ante, di legno con il catenaccio e la porta con la maniglia ed il piccolo vetro, c’era lo spazio nel quale stava il secchio bianco che serviva per i bisogni corporali, il cesso, per la pipì ed il resto. Ogni mattina, attraversato il cortile, si buttava il contenuto nella buca, classico maleodorante pozzo perdente, che raccoglieva i bisogni di ogni famiglia che si affacciava sul cortile. Quattro o cinque famiglie per un totale di venti persone.
Gli odori di ciascuno di noi si confondevano nella buca, nell’angolo del cortile, vicino ad un vero e proprio cesso con il classico buco, e che raccoglieva, oltre ai bisogni corporali, anche i resti che non venivano riciclati dai pochi polli e conigli che quasi ogni famiglia allevava. Dall’alto della stufa partiva il cannone sul quale dei braccioli di ferro sostenevano la poca biancheria ad asciugare: qualche straccio, una maglietta, delle calze. La stufa andava a legna. La legna era accatastata in maniera disordinata sotto il portico con il banco da falegname ed un armadio con i ferri di mio padre. Un falegname, che non lavorava a casa, se non la domenica, ma faceva l’operaio a Milano.
E da Milano, ogni sera, l’aspettavamo, mia madre e io. E da settembre ad aprile c’era immancabile la nebbia.
Lui arrivava in bicicletta. A dicembre ed a gennaio arrivava da Milano in treno, quello dei pendolari si chiamava “il fogna” [omen nomen], sulla linea Milano-Lodi e si fermava a Tavazzano. Da lì si faceva i sei chilometri in bicicletta, con un lumino che a malapena ti faceva vedere la ruota davanti. Gli altri mesi dell’anno si faceva il tragitto casa lavoro, a Milano, di primo mattino perché nello stabilimento doveva essere pronto al banco alle 8, e ritornava alla sera, in bicicletta. Appena arrivato si toglieva il tabarro nero e mi ricordo un cappello. Io lo aiutavo a portare in casa la bicicletta che stava in sala, fino al mattino dopo, e subito ci si sedeva a mangiare una calda pastina, con tanto pane.
La musica! La musica della radio, una radiolina bianca che mandava ballabili con la sigla che ancora adesso sento nella mente “ballate con noi” (alle 19 di ogni sera), e la suono anche quando devo riposizionarmi ed ho bisogno di toccare i tasti.
A tavola era il resoconto: di cosa avevo fatto io durante il giorno a scuola, e le occhiate di mio padre, e quello che aveva fatto lui, da eroe, sul lavoro a Milano.
Finito di mangiare andavo nel portico a prendere ancora un po’ di legna, quella tagliata fine, molta della quale era stata tagliata da me, in pezzi fini con la scure. Andavo poi in sala a ripetere l’esercizio quotidiano al piano. Tra la sala e la cucina la tramezza di legno. Nella sala il pianoforte, che mio nonno aveva comprato a mio padre quand’era ragazzo “ed era venuto apposta dall’Austria”, una poltrona a letto, mai usata, su cui troneggiava una bambola, “Marylin”, e dei mobili, che sono sempre stati nuovi, su di un pavimento dipinto di rosso. I mobili contenevano il servizio di piatti della vecchia ceramica di Lodi, mai usati. Non mi ricordo di aver mai mangiato in sala. Anzi proprio non mi rendo conto del perché ci fosse stata, ma i miei genitori, ed anch’io, eravamo orgogliosi di quei mobili con delle statuine di maschere sulle antine, con un’antina che aprendosi illuminava un piccolo bar con le pareti foderate di quadratini di vetro con tre o quattro bottiglie. La sala era il locale di veloce transito per le poche persone che venivano in visita.
L’esercizio al pianoforte correva più o meno spedito a seconda del tempo che gli avevo dedicato durante il pomeriggio. Mio padre in cucina ascoltava, mentre lo ripetevo una, due, tre volte. Poi veniva in sala e mi faceva vedere l’esercizio seguente, mi sottolineava le difficoltà, me lo faceva solfeggiare, ed era il compito per la sera dopo.
Di nuovo in cucina ad ascoltare la radio. Il venerdì, si mi sembra che fosse di venerdì, c’era la trasmissione radiofonica del teatro. E l’ascoltavamo in silenzio, commentando con lo sguardo.
Mia madre preparava la scaldina, che doveva essere messa nel fra, una specie di doppia slitta di legno, e più tardi sostituita da un recipiente di maiolica la bulle di acqua calda, e si andava a mettere nei letti di sopra, nella camera. Il lettone dei miei, il mio letto con incorporata la libreria e la luce, un armadio, due finestre piccole. Dei travoni che attraversavano il soffitto e nei quali sentivi correre i topi.
Si leggeva prima di spegnere le luci. I tre moschettieri, Vent’anni dopo, I ragazzi della via Pal, Il vecchio e il mare, I miserabili, I misteri di Parigi, Pinocchio, Capitan Fracassa, Cuore, Don Chisciotte, Canto di Natale, Oliver Twist.
Al mattino mio padre era già andato.
Anch’io andavo a scuola nella nebbia. Il sole, quello vero, lo rivedevo a maggio.
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