è una lettura del maggio 2004.
Si leggono dichiarazioni entusiaste di associazioni di categoria perché non è stato detto no, da parte della burocrazia di Bruxelles, alla possibilità di produrre e vendere degli alimenti che contengono, in misura pari al 5%, contaminazioni da agenti chimici, in particolare terapeutici, senza l’obbligo della dichiarazione.
Si sentono dichiarazioni rassicuranti sulla non importanza di focalizzare risorse ed interesse sulla valutazione del rischio chimico, poiché gli alimenti prodotti per gli animali, e quindi tutto ciò che contengono, sono buoni di per sé, fanno vivere e non morire.
Per rischio chimico intendiamo qualsiasi implicazione negativa che può essere addebitata alla filiera zootecnica per l’impiego di qualsiasi microingrediente.
Le implicazioni negative possono essere differenti come tipologia e profondità ma nella situazione di mercato come l’attuale la loro eco avrà delle ripercussioni ancora più devastanti che per il passato. Qualsiasi microingrediente, per essere utilizzato nell’alimento e quindi introdotto nella filiera, deve superare la tappa della decisione. Non è presente in natura, deve essere immesso.
Questa semplice frase chiarisce da subito ogni tipo di problema: il residuo zero, per qualsiasi tipo di implicazione, è possibile: basta decidere di non inserire il microingrediente-problema nell’alimento.
Questa concezione viene ritenuta troppo dura. Peccato! Ma è quello che il consumatore dà per già acquisita. L’alternativa è cercare di mettere delle pezze, e questa è una attività molto pericolosa, perché direttamente collegata con il consumo: se il consumatore non è garantito ripaga con il non consumo.
Se una derrata è nell’espositore per il consumatore vi è la garanzia che i requisiti sanitari sono stati rispettati sia che la derrata provenga da Lodi Vecchio oppure dal Brasile oppure dalla Thailandia.
Tutti coloro che hanno le loro attività inserite nella filiera agrozootecnica italiana reclamano a gran voce la rintracciabilità convinti che il consumatore andrà a preferire la derrata il cui intero ciclo di ottenimento avvenga nel territorio che gli dà maggiori garanzie, oltre al requisito sanitario.
Ma la rintracciabilità ha senso, e quindi valore, solo dopo che alla decisione di impiego conseguano comportamenti che, come minimo, non siano un disvalore. Va da sé che il requisito sanitario assoluto sia la non presenza di residui nelle derrate alimentari.
Per quanto riguarda il rischio chimico le implicazioni negative riguardano la sicurezza dei manipolatori lungo tutta la filiera e l’assicurazione, rafforzante al di là dei controlli sanitari sulla derrata per l’assenza di residui, che non vi siano contaminazioni.
Abbiamo indicato come punti fondamentali:
1. Il rischio di pericolo per la sicurezza dei manipolatori, lungo tutta la filiera, deve essere garantito come risolto nel momento della decisione dell’impiego dell’agente chimico nella produzione di alimenti.
2. La contaminazione deve essere sempre evitata ed in ogni caso sempre dichiarata. L’alternativa è non usare l’alimento quale via di somministrazione dell’agente chimico.
3. Se viene dichiarata la quantità dell’agente chimico nella razione quotidiana dell’animale, questa deve essere rispettata. Se la garanzia non è possibile la dichiarazione non può essere quantitativa.
4. L’alimento deve essere prodotto ed utilizzato solamente in siti riconosciuti e/o registrati.
I punti possono essere ritenuti non importanti, ma per il consumatore sono chiaramente già acquisiti. Personalmente riteniamo che ognuno dei punti sopra riportati debbano essere orgogliosamente valorizzati e considerati come punti differenzianti e di valore delle produzioni di territorio. Bypassarli nei comportamenti è comunque un disvalore ed un valido motivo per rafforzare le produzioni comunque terze rispetto a quelle del territorio. E se il consumo resterà vedremo una maggior fetta occupata dalle produzioni comunque terze.
Leave a comment