Fa sempre piacere rilevare risultati di grandi Paesi, ed il Brasile è un grande Paese non solo per i tocadores calcistici ma anche per le produzioni zootecniche. Passi che poi il consumatore vede e stravede bimbi in favelas, ed altre, credo, amenità. Ma veniamo alle cifre.

Brazilian Association of Animal Protein comunica che nel 2014 il Brasile ha esportato 1.600 tonnellate di carne di pollo (pollo intero, parti, trasformazione, salse). E bravo il Brasile. La produzione, ad esempio, italiana di carne di pollo è di 1.100 tonnellate per anno. Quindi il Brasile esporta molto di più della produzione di questa nazione. Ciò che meraviglia è che difficilmente si legge sulle etichette dei prodotti alimentari “carne prodotta in brasile”;, semmai qualche ristorante davvero all’avanguardia ti segnala che “la carne può provenire da Paesi Sudamericani.”. Questo perché le leggi relative all’allevamento, alla logistica, alla trasformazione, alla conservazione, sono differenti. Si ha l’obbligo di segnalare la provenienza della derrata alimentare proprio perché le regole NON sono uguali nei differenti paesi. Ma questo è osteggiato dall’industria di trasformazione, e viene quindi penalizzato il paese che ha adottato delle metodologie più costose per le produzioni proprie. Se le metodologie più costose non vanno a beneficio del consumatore, che senso ha? Se le diverse metodologie (ormoni si, ormoni no, antibiotici per la crescita si, antibiotici per la crescita no, ad esempio) non vengono segnalate al consumatore, che senso ha?

Dietro al senso vi è la difesa dell’attività di risorse che operano seguendo le regole. Ma se le regole sono differenti, che senso ha?